Quarant’anni di fascicoli affiancati, sovrapposti, elisi. Strage neofascista, atlantica, palestinese. Presunti depistaggi e impistaggi finiti a giudizio, cadaveri scomparsi e reperti biologici ritrovati. Quattro esecutori, dice la verità giudiziaria. E militari, esplosivisti, faccendieri entrati e usciti da una porta girevole in cui pochissimi alla fine sono rimasti impigliati.
La Strage di Bologna, nonostante sentenze passate in giudicato e commemorazioni che si ripetono ogni 2 agosto da 40 anni, ha diviso e continua a dividere. Memorie specularmente irriducibili, senza margine di composizione.
Con Gabriele Paradisi, fra i maggiori esperti sull’argomento, autore del libro “Dossier strage di Bologna-La pista segreta”, scritto assieme a Gian Paolo Pelizzaro e Francois de Quengo de Tonquédec, abbiamo ripercorso questa tragica vicenda – ultimo capitolo la nuova pista sui mandanti – ricostruendone la complicata storia giudiziaria. Speriamo che dopo la lettura, il nodo di questo vero e proprio “segreto della Repubblica” si sciolga un po’ anche per voi.
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Gabriele, riusciamo a mettere un po’ d’ordine in questa complessa vicenda? Prima c’erano Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, poi ecco Thomas Kram, poi Maria Fresu, i cui poveri resti mortali sono diventati una sorta di ostaggio virtuale, e d’un tratto è ricomparso Licio Gelli, ed è comparso addirittura Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’interno. C’era un’indagine in corso e pochi lo sapevano. Riusciamo a mettere in fila i puntini?
«Tutto è nato nel 2005, quando la Procura di Bologna ha aperto un fascicolo su una nuova pista investigativa sulla strage alla stazione – che poi, anni dopo in linguaggio giornalistico, verrà chiamata pista palestinese. La Procura fu “costretta” ad aprire quel nuovo fascicolo a seguito di una interpellanza parlamentare urgente (2-01636), presentata il 28 luglio 2005, primo firmatario Vincenzo Fragalà, nella quale venivano sintetizzati i risultati dell’indagine svolta fino a quel momento dal consulente della Commissione Mitrokhin Gian Paolo Pelizzaro. La nuova pista investigativa sulla strage di Bologna era stata resa nota il 20 luglio 2005 a Montecitorio durante una conferenza stampa, curata dallo stesso Pelizzaro, di presentazione del numero del mensile “Area” del luglio-agosto 2005 intitolato “Strage di Bologna, a un passo dalla verità”. Il 25 luglio 2005, a neanche una settimana di distanza dalla conferenza stampa di Montecitorio, Pelizzaro fu in grado – dopo un quarto di secolo – di disseppellire il nome del «compagno» tedesco presente in stazione al momento dell’esplosione dell’ordigno (così come cripticamente rivelato da Carlos in una intervista pubblicata sul “Messaggero” il 1º marzo 2000): Thomas Kram. La notizia della nuova inchiesta giudiziaria sulla strage che la Procura di Bologna aveva aperto fu rivelata il 17 novembre 2005 dal “Corriere della Sera”. Infine, il 23 febbraio 2006 Gian Paolo Pelizzaro e il magistrato Lorenzo Matassa depositavano agli atti della Commissione Mitrokhin la “Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980”. Questa relazione, di 180 pagine, è stata distribuita ai giornalisti nel corso di una conferenza stampa tenuta dal deputato Enzo Raisi a Bologna il 6 aprile 2006. È il testo fondamentale per comprendere che cosa è veramente la pista palestinese. Uno dei due autori, ha considerato questa relazione una «discesa negli abissi dei segreti della prima Repubblica». L’impianto della pista palestinese indica movente, mandanti, minacce, esecutori e depistaggi. Ciò mandò in fibrillazione più di qualcuno, e il 27 luglio 2011, vedi caso un giorno prima dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato di Thomas Kram e Christa-Margot Fröhlich, su esposto dell’associazione dei familiari, la Procura di Bologna ha aperto un fascicolo contro ignoti per la ricerca dei mandanti. Da quel momento l’apparato dello status quo ha cominciato a inondare la Procura di documenti afferenti alla cosiddetta “strategia della tensione”. Documentazione nota, ben poco materiale inedito. L’obiettivo: far sì che si aprisse un fascicolo sui “mandanti”. La sentenza Mambro-Fioravanti, lo ricordo, è orfana dei mandanti, e questo, assieme alla mancanza di un vero e proprio movente, è sempre stato considerato non a torto il suo punto debole, ma non il solo».
È bastato quindi un pacco di documenti.
«Il Procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato l’8 marzo 2017 in realtà aveva chiesto l’archiviazione di questo filone di indagini sui mandanti, ma il 25 ottobre dello stesso anno la Procura generale presso al Corte di Appello di Bologna ha avocato a sé l’indagine».

E poco se ne era parlato sino due mesi fa.
«Negli ultimi due anni ha tenuto banco un altro processo, sempre per quanto riguarda la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, quello a Gilberto Cavallini che in tanti, io compreso, credevamo si trattasse di una sorta di “contentino” dato ai familiari delle vittime, la cui Associazione da anni chiedeva – per carità legittimamente – indagini sui burattinai della strage, che essi individuano nel contesto della cosiddetta “strategia della tensione”. In realtà, oltre al processo Cavallini, la Procura generale è andata avanti anche sul filone mandanti».
Mentre infuriavano le discussioni e le polemiche in tribunale sul cosiddetto “lembo facciale” e sull’ipotesi di una 86ª vittima, che ben poco risalto hanno avuto sulla stampa, anche su quella di centro-destra.
«Portare sino in fondo queste indagini sulla 86ª vittima avrebbe forse portato a conclusioni indigeste, per usare un eufemismo. Viceversa questo filone sui mandanti ha proceduto parallelamente al processo Cavallini e il 10 febbraio 2020 si è arrivati alla notifica della conclusione delle indagini preliminari. Appena poche settimane dopo che la questione del lembo facciale, attribuito inizialmente ed erroneamente a Maria Fresu grazie alla teoria della cosiddetta “secrezione paradossa”, e alla probabile esistenza di una 86ª vittima, vedevano la pietra tombale con la sentenza di primo grado, che ha inflitto l’ergastolo per concorso in strage a Gilberto Cavallini, quarto colpevole – per la giustizia – dopo Fioravanti, Mambro e Luigi Ciavardini».
Ci torneremo. Restiamo sulle ultime notizie. Gli avvisi di reato per quattro soggetti, e l’individuazione come mandanti e finanziatori di altre quattro persone decedute. E poi i vecchi condannati. Un allargamento della platea sempre nell’ambito della pista Fioravanti-Mambro.
«Ecco chi sono: Paolo Bellini, neofascista di Avanguardia nazionale, accusato di essere il quarto esecutore materiale; il generale Quintino Spella, ex capocentro del Sisde a Padova, accusato di false dichiarazioni per aver negato, agli inizi del 2019, l’esistenza di incontri avvenuti nel luglio 1980 con il magistrato di Padova Giovanni Tamburino. Quest’ultimo, dopo il 2 agosto 1980, sostenne di aver ricevuto dichiarazioni da un detenuto, Luigi Vettore Presilio, il quale gli aveva annunciato l’imminenza di un grave attentato “di cui avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo”; Piergiorgio Segatel, ex carabiniere, accusato di aver negato, il 12 aprile 2019, che la moglie di Mauro Meli, esponente di Ordine Nuovo, gli avesse raccontato che “qualcosa di veramente grosso” stava per accadere, oltre ad altre dichiarazioni considerate non veritiere; infine, ultimo tra i vivi, Domenico Catracchia, immobiliarista romano, accusato di reticenza nell’ammettere che il vecchio Sisde a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 si serviva della sua agenzia, e per aver negato di aver concesso in affitto ai Nar un appartamento di via Gradoli 96 a Roma. Per farla breve, in via Gradoli oltre al covo Br e ad appartamenti di proprietà di agenzie legate ai servizi, ci sarebbero stati anche due covi dei Nar, e la reticenza, secondo i magistrati, sarebbe dovuta alla necessità di nascondere i rapporti che esistevano fra eversione neofascista e servizi».
Via Gradoli 96? Ho capito bene? Dove c’era il covo Br abitato da Moretti e Balzerani?
«Sì proprio quello. Catracchia era nel 1978 l’amministratore di condominio dell’immobile di via Gradoli 96. E ovviamente la cosa ha già mandato in fibrillazione i segugi della pista atlantica per quanto riguarda il caso Moro. La storia dell’affitto ai Nar risale invece al settembre-novembre 1981, tre anni e mezzo dopo la scoperta del covo Br (18 aprile 1978)».
Questi sono i vivi.
«Esatto. Poi ci sono i morti, ma sono morti che pesano. Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, e Umberto Ortolani, altro nome apparso più volte nelle cronache di questi decenni, socio in affari in Sudamerica di Gelli, già accusato e prosciolto per Bologna, faccendiere coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano e nel fallimento Rizzoli. Loro due, secondo la Procura generale, sarebbero i mandanti-finanziatori della strage di Bologna. Poi viene indicato Federico Umberto D’Amato, il controverso direttore dell’Ufficio Affari Riservati, protagonista di varie iniziative di disinformazione e depistaggio durante gli anni della cosiddetta “strategia della tensione”, che dall’Ufficio venne rimosso nel 1974».
Per approdare alla direzione della Polizia di frontiera…
«So dove vuoi arrivare. Alla perquisizione di Thomas Kram al posto di polizia di frontiera di Chiasso il primo agosto 1980. D’Amato era il capo supremo della struttura. Poteva non sapere? È bene ricordare che dal 12 maggio 1980, il nome di Thomas Kram era inserito nella Rubrica di Frontiera per provvedimento di perquisizione sotto aspetto doganale e segnalazione per riservata vigilanza. E come avrebbe potuto D’Amato non utilizzare il passaggio dell’esperto in esplosivi delle Cellule rivoluzionarie tedesche (secondo quanto si legge in un mandato di cattura della Corte federale di Germania del dicembre 2000) – e membro del gruppo Carlos (come risulta da un documento della Stasi che lo inserisce al numero 7 nella nomenklatura di quel gruppo) diretto apparentemente a Milano, ma che in realtà se ne va a Bologna? E se D’Amato poteva utilizzare questa informazione, mettiamo fosse stato davvero il Grande Vecchio della strage di Bologna, perché non lo ha fatto?».
Anche su Kram ci torniamo dopo. Restiamo ai morti?
«Restiamo ai morti. Piduisti ovviamente, che non possono più parlare. Quarto uomo Mario Tedeschi, giornalista, direttore dal 1957 al 1993 del settimanale “il Borghese”, che fu senatore del Movimento sociale-Destra nazionale e poi di Democrazia nazionale-Costituente di destra (1972-1979), il quale, a detta dei magistrati Nicola Proto, Umberto Palma e Alberto Candi, avrebbe coadiuvato D’Amato nella gestione mediatica della strage, depistando le indagini. Poi ci sarebbero ancora “altre persone da identificare”, oltre ai quattro esecutori, di cui tre già condannati con sentenze definitive».
Ecco i mandanti quindi, ed ecco il movente. Quello solito. Destabilizzare per stabilizzare. Cosa c’era da stabilizzare, nel 1980?
«A Bologna sono tetragoni nel sostenere questo tipo di narrazione. Si viaggia all’interno del perimetro ideologico della “strage fascista”, caro sin dal primo giorno al Pci e alla sinistra in genere, e agli apparati di riferimento, cito l’Associazione familiari delle vittime presieduta da Paolo Bolognesi (deputato eletto come indipendente nelle liste del Partito democratico nella XVII Legislatura, 2013-2018; e componente della seconda Commissione Moro). A testimonianza di queste “condizioni ambientali politiche ed emotive”, come le definì il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga nel luglio 2005, dobbiamo notare che la lapide commemorativa della strage, scoperta in stazione il 1° agosto 1981, a un anno dalla strage, riporta la scritta “vittime del terrorismo fascista”, 14 anni prima della condanna dei neofascisti dei Nar. Dunque parrebbe una sentenza già scritta. Stavolta vengono individuati i presunti mandanti, nomi fra i più spiccati rappresentanti del complottismo atlantico e della strategia della tensione. Solo che piazza Fontana avvenne undici anni prima di Bologna nel 1969, piazza della Loggia sei anni prima nel 1974. Parlare di strategia della tensione quindi come movente per Bologna, o genericamente di “filo nero” significa, per ora, nulla. Parlare di inizio del progetto terroristico nel 1979 in “località imprecisata”, idem. Io credo che estendere oltre il 1974 lo schema della “strategia della tensione” sia una semplificazione astorica. Dal punto di vista geopolitico l’Italia, l’Europa e il mondo dei primi anni ’70 non hanno nulla a che vedere con il 1980. Fino al 1974 nel sud Europa vi erano tre dittature di destra – il Portogallo, la Spagna di Franco, la Grecia dei colonnelli – nel 1980 in quei tre Paesi era tornata la democrazia e l’Unione sovietica e il blocco dei Paesi del patto di Varsavia cominciavano a mostrare evidenti segni di crisi. Che senso poteva avere una strage di innocenti in Italia? Cosa c’era da stabilizzare? Inoltre, dopo l’uccisione di Aldo Moro il 9 maggio 1978, nel 1980 era già tramontata la stagione della solidarietà nazionale con i due monocolori Dc guidati da Giulio Andreotti e sostenuti anche dal Pci (1976-1979). All’epoca della strage di Bologna, era presidente del Consiglio Francesco Cossiga».

Si parla di flussi di denaro che da un conto svizzero gelliano scoperto nel 1982 in una cartelletta con intestazione “Bologna”, sarebbero finiti indirettamente ai Nar, esecutori della strage.
«Ecco appunto, si dovrebbe intanto spiegare come mai e perché Fioravanti, Mambro e camerati, ricoperti di milioni da Gelli, Ortolani, appena tre giorni dopo la strage di Bologna, il 5 agosto 1980, abbiano compiuto una rapina a Roma, in un’armeria di Montesacro, per poi recarsi a dormire in un alberghetto di terza categoria, con documenti falsi. Poveri in canna e ben poco desiderosi di sparire dopo quel massacro che avrebbero compiuto a Bologna. Da ricordare anche che i tre Nar, condannati con sentenze definitive, furono arrestati entro un anno e mezzo dalla strage: Luigi Ciavardini il 3 ottobre 1980 (2 mesi dopo la strage); Valerio Fioravanti il 5 febbraio 1981 (6 mesi dopo la strage); Francesca Mambro il 5 marzo 1982 (un anno e mezzo dopo la strage)».
Analizzati gli ultimi sviluppi, torniamo all’inizio se ti va.
«L’inizio… Ci sono tanti inizi… Possiamo partire dal depistaggio di cui sono stati protagonisti Licio Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, tutti condannati per calunnia aggravata [depistaggio]. Il 13 gennaio 1981 sull’espresso Taranto-Milano, su segnalazione dei servizi, venne trovata una valigia con esplosivo, biglietti aerei, armi, oggetti personali di due ipotetici, probabili estremisti di destra stranieri. L’obiettivo era, a prima vista, quello di indirizzare le indagini verso gli ambienti dell’estrema destra internazionale. In realtà una serie di dettagli riconducevano proprio ai Nar. Non a caso Andrea Colombo, giornalista del “manifesto”, molto onestamente in un suo libro su Bologna, ha chiamato l’operazione “Terrore sui treni” un vero e proprio “impistaggio”. Infatti i biglietti aerei fatti ritrovare nella valigia risultavano acquistati da Giorgio Vale (esponente di Terza posizione, amico fraterno di Mambro e Fioravanti) e tra i passeggeri dei voli a cui facevano riferimento i biglietti aerei fatti ritrovare vi era un certo “Bottacin” [falsa identità utilizzata in più occasioni da Gilberto Cavallini] e un certo “Fiorvanti”. Più chiari di così…
Ma prima ancora, proprio nell’ottica di indirizzare le indagini verso la destra internazionale e nostrana, ci pensò, guarda caso, in totale sintonia coi nostri servizi, Salah Khalaf, alias Abu Ayad, numero due dell’olp che sul “Corriere del Ticino” in un’intervista di Rita Porena il 19 settembre 1980, lanciò quella che gli stessi magistrati hanno chiamato “pista libanese”, additando come responsabili neofascisti tedeschi, francesi e italiani, addestrati nei campi falangisti in Libano. Abu Ayad sostenne che era venuto a conoscenza dei progetti di attentato a Bologna dai neofascisti italiani. La “strage fascista” non era in discussione già dall’inizio. Si procedette quindi a tappe forzate sino alle condanne definitive del 1995 per Fioravanti e Mambro».
Fioravanti e Mambro giudicati colpevoli e condannati a diversi ergastoli nel 1995 per strage, Ciavardini, minorenne nel 1980, verrà condannato nel 2007 a 30 anni come esecutore materiale su accusa di Angelo Izzo. Ma nel 2005 accade qualcosa.
«Esatto. Gian Paolo Pelizzaro e Lorenzo Matassa consulenti della Commissione Mitrokhin mentre stavano lavorando alla stesura della già citata “Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980”, scoprono, come abbiamo già detto, la presenza di Kram a Bologna. La relazione su Separat apre uno squarcio clamoroso in un clima che sino a quel momento aveva una sola verità, quella della strage fascista. Si apre la cosiddetta “pista palestinese”, in cui si ipotizza che l’esplosivo sia stato collocato da uomini di Carlos, su commissione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina [Fplp]. Atto di ritorsione dopo il sequestro a Ortona nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979 di due missili terra aria Sam 7 Strela, di fabbricazione sovietica, trasportati da tre autonomi romani, e il conseguente arresto del plenipotenziario in Italia dell’Fplp, Abu Anzeh Saleh. Tutto ciò come “sanzione” per l’infrazione del cosiddetto Lodo Moro, quell’accordo fra governo italiano e palestinesi che permetteva il libero transito di armi palestinesi sul suolo italiano in cambio dell’assenza di attentati, oltre a clausole di tipo economico che facilitavano le forniture di petrolio all’Italia dai paesi arabi e le forniture di armi dall’Italia anche a paesi sotto embargo. Un accordo probabilmente “stipulato” tra la fine del 1972 e il 1973 dopo un anno e mezzo di azioni terroristiche palestinesi in mezza Europa e che interessarono anche il suolo italiano come ad esempio nell’agosto 1972 con l’attentato al deposito Siot di Trieste o sempre nell’agosto di quell’anno con l’attentato scampato per pura fortuna ad un aereo della El Al partito da Fiumicino e su cui era stato imbarcato da due giovani e ignare turiste inglesi un mangianastri esplosivo regalato loro da due arabi. Nella “Relazione” su Separat venne rivelato, tramite documenti inconfutabili, che Thomas Kram il 2 agosto 1980 era a Bologna. Come detto sopra, Kram era un esperto di esplosivi delle Cellule rivoluzionarie tedesche, gruppo di estrema sinistra dedito alla guerriglia e al sabotaggio, ma anche principale serbatoio da cui Carlos attingeva per i quadri dirigenti della sua organizzazione. La pista palestinese spiega il movente [il sequestro dei missili, l’arresto del responsabile per l’Italia, quindi la rottura del lodo], i mandanti [l’Fplp di George Habbash], gli esecutori [membri del gruppo Carlos], i depistaggi [organizzati e pianificati in stretta sintonia dai palestinesi e dal Sismi]. Il 28 luglio 2005 l’onorevole Vincenzo Fragalà presenta una interpellanza urgente, la n. 2-01636, che porta la Procura di Bologna ad aprire un nuovo filone d’inchiesta sull’attentato del 2 agosto 1980, come sopra ricordato».
Dunque le risultanze della Commissione Mitrokhin provocarono grandi e prevedibili sconquassi, e costrinsero i giudici a riaprire un’altra indagine, stavolta sulla pista palestinese. Di cui nel 2014 venne chiesta l’archiviazione. Con due motivazioni che ti chiedo di illustrare. Il procuratore Roberto Alfonso e il Sostituto Enrico Cieri hanno affermato infatti che, dopo aver analizzato documenti frutto di rogatorie in Germania non c’era evidenza che Kram appartenesse al gruppo Carlos (in realtà era il numero 7 nell’organigramma dell’organizzazione), e che non c’erano prove inequivocabili dell’esistenza del Lodo Moro.
«Sarebbe bastato aspettare un anno, il 2015, quando venne reso pubblico un messaggio di Stefano Giovannone da Beirut a Forte Braschi. È il 17 febbraio 1978 quando il colonnello Giovannone informa il Sismi su un possibile futuro attentato. Poi però dice, come rassicurazione: “A mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, interlocutore habet assicuratomi che «Fplp» opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristici”. «In realtà sul Lodo Moro si sapeva tanto già da prima. La verità è che un ribaltamento di prospettiva così radicale non poteva venire ammesso da chi sulla “strage fascista” ha costruito negli anni consenso e carriere politiche. Le tentarono tutte. Il diessino Valter Bielli, all’epoca capogruppo dei Ds in Commissione Mitrokhin, diede un’intervista sull’“Espresso” (datata 1º dicembre 2005) affermando che il fatto che Kram avesse esibito i suoi veri documenti dimostrava la sua buona fede, tirando fuori inoltre come ennesimo “alibi” per il tedesco il telex che, come trascritto nella Relazione di minoranza (di centrosinistra del 23 marzo 2006) della Commissione Mitrokhin, dimostrerebbe che la perquisizione subita a Chiasso obbligò Kram a un ritardo ferroviario che lo costrinse a fermarsi a Bologna. Peccato che la trascrizione di quel telex fosse stata pesantemente manipolata. Il ritardo fu minimo, Kram partì da Chiasso alle 12.08 e avrebbe potuto tranquillamente raggiungere in serata Firenze in treno, sua meta dichiarata. Infatti nel 2013, in una memoria depositata alla Procura di Bologna, Kram ha ammesso candidamente di essere giunto a Bologna nel “corso del pomeriggio” del 1° agosto. C’è poi il fatto che Kram dichiarò di aver raggiunto Firenze in corriera il 2 agosto e di esservi rimasto “quattro, cinque giorni”, mentre la sera del 5 agosto lo ritroviamo a Berlino Est, raggiunto poche ore dopo da Johannes Weinrich, numero due del gruppo Carlos. Entrambi lasceranno la Ddr la mattina del 10 agosto. Insomma, ce ne sono molte di incongruenze sulle quali, a mio avviso, la magistratura ha deciso di non indagare e approfondire adeguatamente».

Kram avrebbe potuto spiegare ai giudici, quando nel luglio 2013 si è presentato spontaneamente a Bologna, il perché di quel viaggio.
«Kram si è avvalso della facoltà di non rispondere, portando una memoria scritta. I giudici alla fine archiviarono affermando però che la presenza di Kram a Bologna alimentava “un grumo residuo di sospetto”. Grumi di sospetto ben minuscoli per qualcuno, se quando nel 2001 il capo della Polizia De Gennaro ricevette dalla Germania una richiesta di informazioni su una latitante della Cellule rivoluzionarie che poteva trovarsi nel nostro Paese e accompagnarsi a Thomas Kram. De Gennaro, scoperto che Kram era a Bologna il giorno della strage, inoltrò una richiesta di indagini alla Questura di Bologna che interessò la Procura. Il sostituto procuratore Paolo Giovagnoli chiese al procuratore capo Luigi Persico di rubricare il fascicolo modello 45 (“atti non costituenti notizia di reato”). L’inchiesta fu archiviata nel giro di una settimana e così il nome di Kram restò sepolto per altri 4 anni».
La storia della pista palestinese non finisce però con l’archiviazione del 2015. Arriva un libro. E un’altra indagine.
«Il libro è “I segreti di Bologna”, di Valerio Cutonilli, avvocato romano, e Rosario Priore, il magistrato che indagò su Ustica, sull’attentato al Papa, sul caso Moro nei primi tre processi. Con Priore ho scritto anch’io un libro sulla prima strage di Fiumicino, quella del 17 dicembre 1973. E torna, come un nero fantasma, la tristissima storia di Maria Fresu. Maria, ventitreenne toscana di origine sarda, è una delle vittime della strage. Stava andando in vacanza assieme a due amiche, di cui una è sopravvissuta, e questo non è un particolare da poco. A Bologna è morta anche la figlioletta di tre anni. Di Maria si sono ufficialmente trovati solamente alcuni resti: un cosiddetto lembo facciale, una sorta di scalpo con un foro oculare, il naso, parte della guancia, le labbra, la fronte e un ciuffo di capelli; una lugubre maschera prodotta dalla fortissima compressione che esplosione ha prodotto. L’aria, entrata ad altissima velocità dai fori delle orecchie e del naso, ha letteralmente strappato la faccia dal teschio».
E gli altri resti della donna?
Appunto. Di Maria, ufficialmente, e ripeto ufficialmente, non si è trovato null’altro. Le sono stati attribuiti il lembo facciale e i resti di una piccola mano. Altra questione importantissima: per subire una compressione del genere, la donna avrebbe dovuto essere a non più di mezzo metro molto vicina al punto dello scoppio. Una fattispecie di decesso diversa da quella della maggior parte delle vittime, travolte dal crollo dei muri della sala di attesa di seconda classe. Silvana Ancillotti, l’amica della Fresu sopravvissuta, ricorda ancora oggi lucidamente che Maria al momento dello scoppio era vicina a lei a una distanza superiore ai 5-7 metri. Quando Silvana si risvegliò fra le macerie, di Maria non c’era traccia».
Dove era finita? Oltre a Cutonilli e Priore se lo sono chiesto anche i magistrati del processo a Gilberto Cavallini. Mentre per qualcun altro sono iniziati i mal di pancia.
«Come a Riccardo Lenzi, presidente dell’associazione “Piantiamo la memoria”. Nel 2016, all’uscita del libro di Cutonilli e Priore, Lenzi disse che la sanzione minima per quelli come Priore – che, fra parentesi, aveva avuto un lontano familiare fra le vittime – era di non venir più accolti a Bologna e invitava a non comprare il libro. Questo il clima».
In ogni caso del lembo facciale si è parlato nel processo di primo grado contro Gilberto Cavallini per concorso in strage, iniziato nel 2017 e terminato nel gennaio 2020 con la condanna all’ergastolo dell’ex Nar.
«In realtà se ne è parlato ben prima. Già nel 1980 l’anatomopatologo Giuseppe Pappalardo fece la prima perizia sui resti attribuiti a Maria Fresu attraverso l’esame del sangue. E ne uscì che il profilo immuno ematologico della “maschera facciale” apparteneva al gruppo A, mentre quello della Fresu e di tutti i suoi familiari, madre, padre, un fratello e sei sorelle, era del gruppo 0».
Se non era la Fresu, già allora era da mettere in conto una ottantaseiesima vittima.
«In teoria quei resti avrebbero potuto essere di un’altra vittima, e Pappalardo si pose il problema e indagò anche in questo senso. Fra le restanti quaranta vittime della strage di sesso femminile, solo due avevano il “volto sfacelato” in condizioni compatibili con il lembo facciale. La perizia sui loro resti disse che Vincenzina Sala, 50 anni, aveva gruppo sanguigno 0, Errica Frigerio, 57 anni, era di gruppo B. Il lembo facciale, che era appartenuto ad una giovane donna, non poteva quindi essere neppure di queste due povere vittime».
A maggior ragione quindi una ottantaseiesima vittima.
«Altroché. Pappalardo lo ammise in una nota della sua perizia, ma poiché vi era la certezza che la Fresu si trovava nella sala d’aspetto al momento dell’esplosione e di lei non restava nulla se non quel reperto non attribuibile a nessun’altra vittima di sesso femminile, per far tornare i conti, Pappalardo ipotizzò la teoria della “secrezione paradossa”. Si tratta di una vecchia teoria degli anni ’50 che ammetteva la possibilità di discrepanze nella determinazione del gruppo sanguigno se effettuata su secreti e sangue disseccato. Una teoria, è stato dimostrato da anni, assolutamente inconsistente dal punto di vista scientifico».

Però allora, a quanto capisco, i giudici l’avevano accolta.
«Certo. Era l’unica spiegazione ammissibile per tenere in piedi la “verità” politicamente corretta. Il dossier Maria Fresu venne messo in un cassetto, il lembo facciale venne attribuito alla povera giovane mamma toscana attraverso la teoria della “secrezione paradossa”, e venne tumulato nella tomba di famiglia a Montespertoli e il numero delle vittime, 85, divenne quello ufficiale».
Ma il dossier è tornato poi alla ribalta al processo Cavallini.
«Una mano e una maschera facciale. Sempre quelle. Nel marzo 2019 nel cimitero di Montespertoli, la tomba dove si presumeva riposassero i resti della Fresu è stata aperta, e il lembo facciale, trovato spezzato in due parti e “fortemente ammalorato”, assieme ai resti della piccola mano di donna, è stato riesumato. Messa in cantina la teoria della “secrezione paradossa”, una nuova perizia, questa volta non solo sul gruppo sanguigno ma sul Dna, affidata alla biologa genetico-forense dei Ris di Roma Elena Pilli, ha escluso l’appartenenza del reperto alla Fresu. I resti della mano, ma soprattutto il lembo di volto non appartengono alla giovane donna toscana… Torna quindi prepotentemente in essere, ma soprattutto scientificamente, un dato di fatto: la certezza dell’esistenza di una 86ª vittima, ignota e mai reclamata. Nella prima perizia esplosivistica eseguita dal professor Danilo Coppe e dal colonnello dei carabinieri Adolfo Gregori, depositata il 27 giugno 2019, è stato affermato che nella sala d’aspetto della stazione di Bologna un corpo “NON” poteva smaterializzarsi. Nel successivo addendum, depositato il 21 ottobre 2019, di fronte al dato inconfutabile che quello scalpo non era della Fresu, Coppe e Gregori hanno ipotizzato che il corpo della Fresu si sia “depezzato” e i resti siano stati distribuiti in altre bare. Per quanto riguarda il lembo di volto, Coppe ha avanzato l’ipotesi che esso potrebbe teoricamente appartenere a una tra altre sette vittime di sesso femminile con traumi gravi al capo. Abbiamo visto che già Pappalardo aveva fatto un’indagine comparativa limitando tale possibilità a due vittime, ma escludendole per età e gruppo sanguigno. Gli avvocati della difesa di Cavallini hanno quindi depositato i referti tanatologici del 1980 di queste sette donne in cui si può già documentalmente evidenziare l’incompatibilità con lo scalpo. Il presidente della Corte di Assise Michele Leoni ha però chiuso la questione negando l’esame del Dna sui familiari delle sette vittime indicate da Coppe. Esame che avrebbe potuto indicare scientificamente e in maniera inconfutabile se quel volto apparteneva o no ad una vittima identificata».
Ora, dopo questo lungo excursus su una vicenda così complessa, di cui ti ringrazio e che spero sia risultata interessante ai lettori, ti chiedo un’analisi più personale, da ricercatore che ha studiato forse con più continuità le carte processuali e non solo della questione Bologna.
«Il clima a Bologna è tale che ipotesi alternative sulla strage del 2 agosto non sono “culturalmente” accettate. E questa è la questione principale. Prima di arrivare al nocciolo, lasciami aggiungere qualcosa. Durante il processo Cavallini i due avvocati difensori Alessandro Pellegrini e Gabriele Bordoni chiesero di poter esaminare le carte e i telex del colonnello Giovannone, nel 1980 capocentro del Sismi a Beirut e interfaccia dei nostri servizi con la galassia arabo-palestinese. Su questi documenti è scaduto il segreto di Stato nel 2014, ma sono stati subito blindati con le consuete classifiche riservato(R)-riservatissimo(RR)-segreto(S)-segretissimo(SS). A febbraio 2019 la richiesta di acquisizione è stata rigettata dal presidente della Corte d’Assise. In maggio è giunto il rifiuto anche da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri. La domanda è quindi sempre la stessa: cosa c’è in quelle carte? Niente? E se non c’è niente perché dopo 40 anni storici e ricercatori non li possono ancora visionare?».
Sempre le carte di Giovannone. Sempre invisibili, come nel caso Toni-De Palo.
«Sì però almeno in quel caso la parziale verità, sia giudiziaria che storica, conferma il depistaggio dei Servizi, o almeno di parte di essi. Su Bologna la questione della ottantaseiesima vittima è esiziale, e va a sommarsi al convincente quadro disegnato nella Commissione Mitrokhin da Pelizzaro e Matassa, e poi nel libro “Dossier Strage di Bologna. La pista segreta”, firmato oltre che da me, da Gian Paolo e da François de Quengo de Tonquédec. Le minaccie esplicite di ritorsione dell’Fplp ci sono, c’è una bomba che, nonostante la tanta disinformazione, non era ad alto potenziale, ma ha causato tante vittime per il crollo dell’edificio della sala d’aspetto di seconda classe e per una serie di concause singolari, ad esempio la presenza di un treno sul primo binario che ha amplificato l’effetto riflettendo l’onda d’urto. Altrimenti avrebbe fatto non più di dieci vittime, tutte le persone che disgraziatamente si trovavano nel raggio di 5-7 metri dal punto dell’esplosione. Non so a cosa servisse la bomba, se a un attentato a Bologna, o se era solo in transito verso un altro obiettivo, come disse Cossiga, magari verso Trani ove era incarcerato Abu Anzeh Saleh. Certamente l’ipotesi di un’esplosione accidentale ha i suoi perché. Ma possiamo fare solo ipotesi.