Fuori orario, ovvero il pesce piccolo (parte prima)

Il caso Toni-De Palo, cosa salta fuori dalla sentenza ordinanza. La giustizia arriva tardi, trova una vaga verità e colpisce gli attori di secondo piano

Pubblichiamo in questo post la prima parte della sentenza ordinanza redatta dal giudice Renato Squillante sulla tragica vicenda della scomparsa nel settembre 1980 di Italo Toni e Graziella De Palo, i due giornalisti italiani che a fine agosto di quell’anno avevano raggiunto a Beirut ospiti dell’Olp per effettuare dei reportage sui campi palestinesi, e poi inghiottiti nel nulla. Avevano visto qualcosa di indicibile? Fu solamente un enorme equivoco? Si erano messi in mezzo i siriani? La madre e il fratello di Graziella ancora aspettano di sapere. I parenti di Italo Toni pure.

Questo tragico balletto fu costellato già dall’inizio con depistaggi, riluttanze, testimoni farlocchi, calunnie, bugie, temporeggiamenti che hanno tirato per le lunghe le indagini sino ad arrivare al 26 febbraio 1986, data del presente documento. Quasi sei anni dopo dai fatti. Non tardi: schifosamente tardi.

Non siamo sicuri se vigesse ancora il Lodo Moro, o ciò che restava di esso, e quando fosse tirato il servofreno ma il comportamento dello Stato, ministero della Difesa, servizi e ministero degli Esteri inclusi nel tenere lontana dalle indagini la galassia palestinese, fosse Olp, Fplp, Fdplp, è stato reticente ai limiti o oltre di qualsiasi regola etica. In nome della sicurezza nazionale.

Ma quanto si può arrivare a nascondere, occultare, depistare in nome della sicurezza nazionale in termini di vite dei propri cittadini? E’ una domanda di sapore dostoevskiano che lasciamo sospesa. Magari la riprendiamo nei commenti. Buona lettura.

Dalla prima pagina balzano subito all’occhio alcuni dati: Giovannone Stefano: deceduto. Santovito Giuseppe: deceduto. Habbash George (il capo del Fronte Popolare di Liberazione Palestinese, sempre con un piede dentro e uno fuori dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina): irreperibile. Resta Damiano Balestra, il pesce piccolo, addetto alle cifrature all’ambasciata italiana di Beirut, che era anche centro Sismi. Là dove il colonnello Giovannone e la giornalista Rita Porena (vedi altri scritti su di lei in questo blog o il capitolo “Un agente doppio da proteggere” nel mio libro “Il fuoco e il silenzio”) fungevano da interfaccia con i palestinesi cercando di leggere in anticipo e comunicare a Forte Braschi le mosse di questi scomodi alleati che erano i palestinesi alla vigilia di Pace in Galilea. Qui il documento manca di tre righe, semplicemente viene illustrato il primo capo di imputazione per Giovannone: la corruzione dell’appuntato Balestra. Era una situazione logistica singolare all’ambasciata di Beirut dove Giovannone, referente del Sismi, e l’ambasciatore Stefano D’Andrea, poi trasferito in Danimarca, si guardavano di cagnesco. Giovannone doveva tenere i contatti con i palestinesi, D’Andrea era considerato da Giovannone e Santovito filoisraeliano. Tanto che Giovannone, per intercettare i telex fra la Farnesina e D’Andrea, la combinò grossa…

La seconda imputazione entra nella carne viva della vicenda: “….aiutato gli autori del sequestro e presunto omicidio…. a eludere le investigazioni… controllando e ostacolando…” E allora si entra nel merito, accusando Santovito di avere affermato il falso in occasione della notizia dei presunti cadaveri italiani che giacevano nell’obitorio dell’ospedale americano di Beirut (vedi in questo blog), e accusando Habbash di avere rapito e ucciso Italo Toni e Graziella De Palo.
Da qui sotto viene riassunta in sintesi la vicenda, può essere importante per chi non la conosce nei suoi complicati risvolti.
“Le indagini venivano intensificate anche per le sollecitazioni di…” Qui non si capisce per che motivo dopo sei anni di ritardi, l’autorità giudiziaria continuasse a raccontare la favola dell’interesse comune di istituzioni e apparati della Stato a venire a capo della vicenda.
Come si può leggere sopra, parte subito il pacchetto deii depistaggi: di Giovannone, di Arafat e del suo vice Abu Ayad (Salah Khalaf), capo dei servizi palestinesi: i colpevoli sono i cristiano maroniti, non c’è dubbio, i palestinesi non c’entrano e l’ambasciatore D’Andrea è un’impostore. Ci si mette anche il portiere dell’Albergo dove i due avevano soggiornato prima di sparire: sono andati lontano, partiti per l’Iraq… E arriva anche Elio Ciolini, mandato e pagato chissà da chi, per proporre una fantasmagorica rivelazione sulla quale le indagini perderanno mesi e mesi.
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Viene citata Lya Rosa, infermiera-ostetrica attivista dell’organizzazione siriana Saika di cui abbiamo diffusamente parlato nel blog), che ammetterà il coinvolgimento palestinese. Ma dirà che è troppo tardi e la faccenda troppo delicata per arrivare a una veità certa.

Questa è la prima parte di tre. Prossimamente la pubblicazione delle altre due, sino ad arrivare alle conclusioni di Squliante

La Ford, l’esplosivo e il fascista legionario

Questa è una vicenda particolare. La storia di un uomo che ha attraversato nello spazio di un verbale battuto a macchina da un piantone, le vicende dell’attacco palestinese alla tank farm del 4 agosto 1972. Passato da quelle parti così velocemente che nessuno se ne è accorto. O ha fatto in modo di.

Il personaggio in questione si chiamava Giampietro Mariga. Morì suicida nel marzo 1998 in Francia, dove viveva da alcuni anni . Era fuggito dall’Italia, dal Veneto, utilizzando un’auto a noleggio sottratta all’Avis e finì per arruolarsi nella Legione straniera. Vi rimase per almeno una decina d’anni. Dopo il congedo non tornò in Italia, si fermò in Francia e si stabilì a Orange, vicino ad Avignone, dove avrebbe abitato per anni assieme alla nuova moglie. Nuova vita e nome falso, Giovanni Marphy.

Perché Giovanni Marphy/Giampietro Mariga si fosse suicidato non sappiamo. Sappiamo che in Francia era fuggito dopo esser rimasto coinvolto (poi non condannato) nelle indagini sulla strage alla Questura di Milano, quella opera del anarco-fascista Gianfranco Bertoli tornato da un kibbutz. Ma la vicenda di Giampietro Mariga non ruotava solo attorno a quella storia. Era la seconda metà degli anni ’90 quando i Ros si attivarono per rintracciarlo su ordine del giudice Guido Salvini, che stava indagando sull’estrema destra veneta e la strage di Piazza Fontana. Mariga era stato infatti un personaggio di rilievo in quel milieu ordinovista mestrino/padovano in cui bazzicavano attivisti come Delfo Zorzi, Franco Freda, Giovanni Ventura, Carlo Digilio. Qualcuno deceduto, qualcuno ancora vivente. Tutti, in ordine sparso, hanno ruotato attorno alla Strage di Piazza Fontana. Prima accusati, poi condannati, poi scagionati o prescritti. Una storia che mescola estrema destra, servizi italiani ed esteri, vicende le cui coordinate e responsabilità non sono mai state accertate. Una matassa ancora oggi da dipanare.

Giovanni Marphy/Giampietro Mariga doveva essere quindi rintracciato e sentito da Salvini, che aveva diverse cose da chierergli, ma qualcosa o qualcuno ci si mise in mezzo, silenziosamente, e l’iniziativa del giudice istruttore non andò a buon fine. Non sappiamo se fosse attivo lo scudo di una Dottrina Mitterand all’incontrario, la famigerata rete di tutela per rifugiati non macchiatisi di reati di sangue che ha protetto tanti fuoriusciti italiani, e se il bastone, fra le ruote di quell’indagine così delicata, fosse stato messo in Italia. Resta il fatto l’ex ordinovista mestrino rimase fuori dai riflettori mediatici, e pure il suo suicidio solo qualche anno dopo non ebbe l’eco che ci si poteva aspettare.

Giampietro Mariga arruolato nella Legione Straniera con il nome Giovanni Maruffi

Facciamo ora un balzo all’indietro di tre decenni, al 1968, il 9 ottobre per la precisione. Quella notte la sezione del Pci di Campalto presso Mestre venne assalita e devastata. Giampiero Mariga, assieme a Delfo Zorzi e Martino Siciliano fu coinvolto dalle indagini, la sua abitazione venne perquisita e vi furono trovati un mitra, un elmetto, una tuta mimetica e pure dell’esplosivo in minima quantità.

Giampietro Mariga viveva allora a Spinea. Secondo alcune fonti (citiamo il libro di Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin “La strage”), era uno spiantato mezzo delinquente con simpatie e amicizie di estrema destra. Di professione macellaio, sposato con quattro figli, gravitava attorno all’ambiente del poligono di tiro a segno del Lido di Venezia. E per arrotondare lo stipendio, movimentava le automobili dell’Avis Rent a Car di Corso del Popolo a Mestre, centro di raccolta delle auto noleggiate nel Nordest, per ritirarle e consegnarle ai turisti, o riportarle in garage. Una vita turbolenta, raccontano Dianese e Bettin, e diversi episodi starebbero a dimostrarlo. Per esempio. Era il 10 marzo 1970 quando Mariga si presentò di notte all’ospedale di Mestre con una pallottola nella spalla. Dopo un aggressione, denunciò lui, all’uscita di una pizzeria a piazza Ferretto. Una vicenda, anche questa, che non fu mai realmente indagata sino in fondo.

Arriviamo ora al 1972. Fine luglio. Scenario completamente diverso. I palestinesi di Settembre Nero da tre anni si sono messi d’impegno a compiere attentati fuori dal Medio Oriente: dirottamenti aerei, esplosioni, attacchi a obiettivi non più solo ebraici. La missione: far conoscere al mondo la causa palestinese magari con le buone, meglio con le cattive. La solita prassi marxista della propaganda armata, cara anche alle Brigate Rosse, almeno sino a un certo punto della loro storia. Ma concentriamoci sulla nostra, che è già una storia che ha dell’inverosimile. L’Italia sino a quel momento è fuori dalla lista palestinese, ma il primo obiettivo è prossimo: i depositi petroliferi di Trieste, dove viene stoccato il greggio che giunge nelle cisterne di petroliere diretto in Austria e in Baviera. Il capo dell’operazione è Mohamed Boudia, ed è in possesso del know how. Fu infatti autore di un attentato ai depositi petroliferi a Marsiglia a fine anni ’50 quando era ancora indipendentista algerino, quindi prima di passare alla causa palestinese, aderire al Fplp e diventare capo della cellula parigina e membro coperto di Settembre Nero. Sarebbe stato ucciso dagli israeliani quasi un anno dopo – il 27 giugno 1973 – a Parigi in rue de Fosse Saint Bernard, quarto pedone caduto nell’operazione “Collera di Dio”, la vendetta dopo la strage di Monaco.

Ecco quindi Marie Therese Lefebvre arrivare a Venezia in aereo da Parigi via Milano. Con lei un’altra donna, Dominique Iurilli. Le due incontrano in Veneto gli altri uomini del commando. Chaban Kadem, probabilmente il capo operativo dell’operazione, con lei anche a Ommen e Ravenstein sei mesi prima e in Rue copernic a Parigi tre mesi dopo, dove sarebbe stato ucciso l’ambiguo giornalista giordano Kannou Khodr, sospettato dai palestinesi di essere una spia, dando il via alle indagini sull’attentato di Trieste.

Con loro altre persone, magari anche italiani, che le successive indagini non avrebbero identificato. E quelli identificati o presunti tali, come Lodovico Codella, il giovane regista che venne a Trieste pochi mesi prima dell’attentato in un viaggio di nozze pieno di contraddizioni, ne uscirono in qualche modo fuori.

Ma restiamo alla nostra storia. Lefebvre cura la parte logistica dell’azione sotto la guida a distanza di Mohamed Boudia. Rimane per qualche giorno a Mestre, vede delle persone, raggruppa gli attivisti, prepara l’azione di Trieste? Si sa poco di più su quei giorni, perché da quel momento le nebbie dell’omertà si fanno fitte, e gli interessi geopolitici ed energetici impediranno di fatto le indagini. Per non far scoppiare la guerra mondiale nel Mediterraneo percorso allora da navi da guerra armate sino ai denti. Una strategia di distrazione e occultamento che solo nell’ottobre di un anno dopo avrebbe avuto la sua definizione, seppur ufficiosa, nei contatti fra funzionari italiani e rappresentanti palestinesi che avrebbero dato vita a quello che oggi conosciamo come Lodo Moro. Il 4 agosto 1972 era presto per il Lodo, ma non troppo. Poco dopo l’una di notte, a Trieste esplosero tre enormi serbatoi di greggio e si evitò per un pelo la strage. Il giudice istruttore Sergio Serbo, incaricato delle indagini, tentò invano di forzare il muro parigino del silenzio, invano. Ma, come diceva Montale, c’è sempre un anello che non tiene.

Dopo l’attentato, le indagini vengono affidate agli agenti dell’Ufficio politico di Trieste Lino Brigadini e Lino Beltrami, che su richiesta di Serbo si recano a Mestre. Brigadini rintraccia Liliana Serena impiegata dell’Avis dove Lefevbre aveva noleggiato la Ford Taunus rosso scuro che avrebbe tenuto per cinque giorni percorrendo 1.176 chilometri. Serena ricordava la Lefebvre: “donna tozza e robusta, vestita con colori sgargianti, con i capelli biondi tirati su da grandi spilloni”. Così come la ricordava un altro impiegato, Edoardo Sensati: “una figura sgradevole, che si vestiva come a voler far risaltare i propri difetti fisici”.

Ma c’era uno che ricordava qualcosa di ben più importante. Era l’incaricato alla consegna delle automobili Avis ai clienti. Sentito dagli investigatori, ricordò che Lefebvre aveva con sè due borse, di cui una pesantissima, in pelle, bassa e larga, tanto che aveva dovuto aiutarla a caricarla nel portabagagli della Ford da lei noleggiata. Pesava tantissimo, sicuramente più di 20 chilogrammi, disse l’uomo.

La Ford Taunus noleggiata da Marie Therese Levebvre

Serbo prese nota, e ricordò che nella perizia sugli esplosivi di Trieste, i tre artificieri incaricati avevano stabilito in 30 chilogrammi la quantità dell’esplosivo usato. Non era una prova, ma un pesantissimo indizio.

A sentenza non si arrivò a una verità giudiziaria sull’origine dell’esplosivo, ma venne dato per scontato che fosse quello l’esplosivo utilizzato. Era stato caricato a Mestre e da lì portato a Trieste, questa l’ipotesi. Era un’ipotesi plausibile, e non ce n’erano di alternative dato che in quegli anni il Veneto era terra di gente che con armi e bombe aveva a che fare. Quindi era stato procurato da ambienti dell’estrema destra veneta? A una conclusione del genere, come detto, i giudici non arrivarono, né in primo grado, né in appello (la Cassazione neppure venne ammessa, tanto la vicenda scottava).

Ma i giudici non si resero conto chi era l’addetto che aveva rilasciato quella testimonianza cruciale per per la direzione delle indagini.

Quell’uomo era Giampietro Mariga.

Le indagini sull’attentato alla tank farm di Trieste portarono a una verità giudiziaria balbettante come una dentiera rotta. Ma ci sembra davvero incredibile che nessuno si fosse accorto chi fosse quell’uomo, nel faldone delle indagini indicato come un normale, anche se importante, testimone.

Se si vuole escludere la casualità della presenza di Mariga, e sarebbe proprio un’incredibile casualità, a questo punto gli interrogativi che si pongono sono tanti e inquietanti.

Uno è banale. Perché un neofascista come Giampietro Mariga, ordinovista vicino agli ambienti che si ipotizzò avessero fornito l’esplosivo, avrebbe dovuto testimoniare indirizzando l’attenzione verso il “suo” mondo? Impistare per depistare? Scheggia impazzita? O c’era forse qualcosa da nascondere per arrivare con la propria testimonianza a indirizzare le indagini di fatto contro se stessi? Un interesse superiore, magari indicibile? Magari un ruolo della Jugoslavia, amica dei palestinesi (Tito ospitò almeno due volte Carlos lo Sciacallo nella sua tenuta delle isole Brioni) rimasta sempre defilata in questa vicenda, nonostante il confine corresse e corra anche oggi a poche centinaia di metri dalla tank farm, permettendo facili vie di fuga e di supporto logistico militare? Sono domande che non hanno avuto sinora risposta, anche perché in pochi se le sono poste.

Fra mondo nazifascista e mondo arabo le vicinanze risalgono ai tempi del Gran Muftì di Gerusalemme e Hitler e anche a molto prima. Vedi la casualità, proprio il manifesto apparso sui muri di Trieste pochi giorni prima dell’attentato testimoniava questa comunanza.

E’ un manifesto illuminante: il collante antisemita più forte di schieramenti tattici che durano lo spazio di un’azione. E che dal mondo ordinovista potesse arrivare un supporto agli amici palestinesi come si vede non è ipotesi campata in aria.

Ma resta non spiegato il paradosso di una testimonianza che appare, se vogliamo utilizzare una metafora sportiva, come un clamoroso autogol.

E il caso Giampiero Mariga si somma ai tanti misteri irrisolti di questa vicenda, sino a qualche anno fa completamente dimenticata.

Quel giorno che madame Lefebvre perse la trebisonda

I misteri dell’attentato alla tank farm petrolifera di Trieste sono ancora numerosi. Con il nostro libro “Il grande fuoco” abbiamo raccontato l’inquietante cornice storica, le modalità dell’azione, il silenzio politico-mediatico che seguì a quello che è stato il primo attentato palestinese in Italia. Uno dei tanti attentati “dimenticati”.

Manca però ancora più di un tassello. Al vaglio della verità storica c’è ancora il ruolo del regista romano Ludovico Codella e il suo breve viaggio di nozze invernale a Trieste sei mesi prima del fatto. Sospettato di essere il basista e poi assolto per insufficienza di prove. Possiamo anche citare le incongruenze fra le confessioni dei vari attori, i dubbi sul numero degli attentatori, sulla provenienza dell’esplosivo, sulla presenza di quinte colonne, per arrivare all’incredibile soffiata del superpoliziotto Silvano Russomanno, già collaboratore di Federico Umberto D’Amato, allora funzionario all’Ispettorato Generale per la Lotta al Terrorismo. E anche sul ruolo in tutta questa vicenda di Rita Porena – che nel libro ha un capitolo tutto per sé intitolato “Un agente doppio da proteggere?”, pista lasciata cadere inspiegabilmente dal pubblico ministero di allora.

Sono cose di cui abbiamo parlato estesamente in questo blog che intendeva, e in parte è riuscito, dipanare ulteriormente le tante nebbie che ancora rendono opaca questa storia. Di passi avanti ne abbiamo fatti, rispetto alla pubblicazione del libro ormai sei anni fa. Citiamo, per rimanere al tempo recente, la scoperta di dove erano andate a finire le due donne francesi condannate per l’attentato, Marie Therese Lefebvre e Dominique Jurilli.

Fra i tanti punti di discontinuità della narrazione, Il comportamento delle autorità giudiziarie francesi fa quasi l’effetto di un dito nell’occhio. Ricapitolando in sintesi: dell’attentato ne parla nel novembre 1972 tale Lamri Bouadiche, arrestato per l’omicidio a Parigi di un ambiguo giornalista siriano, Kannou Khodr. Bouadiche in sostanza dice: guardate che la donna che ha condotto il nostro gruppo di fuoco palestinese a casa di Khodr, al civico di rue Copernic 5 (16.mo arrondissenment, non lontano dall’Arco di Trionfo n.d.a.), ha partecipato agli attentati del febbraio scorso in Belgio e Olanda, Ommen e Ravenstein, e anche all’attentato di agosto a Trieste. Si tratta di Marie Therese Lefevbre. Con lei anche l’algerino Chaban Kadem (forse il killer di Khodr). Così come la giovane parigina Dominique Jurilli, che però non c’entra con la vicenda Khodr, bensì con Ommen, Ravenstein e Trieste.

Il civico 5 di rue Copernic, oggi

Assieme a questi, l’algerino Mohamed Boudia, luogotenente palestinese a Parigi, che dopo l’arresto e le foto scattate in questura tornò a fare la bella vita di seduttore e agitatore culturale sino a quando il Mossad lo fece saltare in aria nell’ambito dell’operazione Collera di Dio il giugno dopo.

A questa cornice siamo ora in grado di aggiungere degli approfondimenti, quasi degli aneddoti, spiccioli di debole umanità che però ci avvicinano alla temperie di quei giorni, fatti di arresti finti e liberazioni vere, uomini e donne considerati “fantasmi” in Italia ma che gironzolavano tranquillamente per Parigi.

L’ira funesta della signora

Siamo a metà novembre 1972. Lamri Bouadiche ha già parlato. “E’ vero: io, Kadem e Boudia siamo saliti da Khodr. Giù ci aspettava in macchina la Lefebvre“. Marie Therese viene convocata al commissariato di Quai des Orfevés per il primo interrogatorio. Appare irritata, nervosa, racconta Jan Blaauw, poliziotto olandese a giunto a Parigi con l’incarico di relazionarsi con le autorità francesi. A un certo punto, mentre sta parlando, un agente la interrompe secco: “Lei mente, sarebbe ora che dica la verità”. Levebvre allora afferra di colpo la pila dei verbali delle dichiarazioni e prima di poter essere fermata, e in uno scatto d’ira, completamente fuori controllo, comincia a farle a brandelli. Un’immagine che contrasta nettamente con quella delle foto che le vennero fatte in questura, in cui aveva un lampo di furbizia negli occhi quasi a dire: sbattetevi pure, tanto io ne uscirò fuori, .

Ci volle un’ora, racconta Blaauw nel suo libro “Dossier Blaauw, memories van een oud-hoofdcommissaris van politie” (grazie a Martin Visschers), per rimettere in linea con il nastro adesivo le strisce di carta strappate dei documenti.

Marie Therese Lefebvre viene incarcerata il 16 novembre 1973 nella casa circondariale di La Roquette su mandato del giudice istruttore Jean Sablayrolles, con l’accusa di concorso in omicidio. Dice di non sapere il motivo per cui il 13 novembre, alle 10 di sera, aveva portato in auto quel gruppo a rue Copernic, e perché i suoi “amici” erano entrati nel portone del civico 1. Tempi brevissimi, come si vede, ma Bouadiche aveva già parlato.

Tutto in malora? Neanche per idea. Viene scarcerata poco dopo. Il soccorso rosso francese si era mosso, e l’avvocato Henry Leclerc aveva messo sul tavolo del giudice settemila franchi. Una cifra che corrisponde a 6000 euro di oggi. Non un’enormità, ma neppure poco per una chiroterapeuta single che esercitava la sua attività in un cosiddetto “laboratorio medico ausiliario” in via Emile Bergerat al civico 1 di Neuilly sur Seine di fronte alla Defence, non lontano da rue Copernic.

Le venne comunque ritirato il passaporto, e imposto l’obbligo di firma in commissariato. Ai primi di marzo viene interrogata per la terza volta, e stavolta anche su Trieste. Con il giudice Camille Cochet c’è anche il giudice ispettore Sergio Serbo, che indaga sull’attentato di Trieste, ma può solo assistere, non intervenire. E’ lì che Lefebvre parla di una ragazza, un ex attrice ventiquattrenne che in agosto era stata con lei a Venezia, all’Hotel Casanova, prima di noleggiare la Ford Taunus rosso scuro con cui avrebbe portato uomini ed esplosivi a Trieste, percorrendo in pochi giorni più di 1000 chilometri, che non sono propriamente i quattrocento scarsi di andata e ritorno fra Venezia e Trieste. Il nome di Dominique Jurilli era stato diligentemente annotato dal portiere dell’albergo veneziano, ma un anno e mezzo dopo, finalmente messe a confronto, verificato che era vero che Jurilli aveva 24 anni e aveva frequentato come attrice il parigino Theatre de L’Ouest gestito da Mohamed Boudia, le due donne giurarono di non essersi mai conosciute, prima di sparire lungo destini molto diversi. Un destino di giornalista gauche esperta di Cina e oriente per Jurilli, un destino di oblio per Levebvre, nonostante un’indagine per concorso in omicidio in corso, che la portò a vivere a lungo, sino alla sua morte in tarda età in Alta Garonna nel gennaio 2015.

Altro che quei “fantasmi” di cui parlava ripetutamente narrazione giornalistica di quegli anni. E non solo quella italiana. Il francese Le Monde, il 17 dicembre 1977, dando notizia della condanna in primo grado per l’attentato di Trieste (22 anni per strage), scriveva che Levebvre, Jurilli e Kadem erano latitanti, in fuga.

Lo strano viaggio di Edera Corrà

La tragica scomparsa il 2 settembre 1980 a Beirut di Italo Toni e Graziella De Palo è forse l’esempio più significativo di come negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso i palestinesi tenevano per le palle, scusate l’espressione, il governo italiano.

La vicenda è nota ma non troppo, non come il caso Alpi-Hrovatin per esempio: permane un’enorme fatica da parte della stampa italiana in generale, e sino a qualche anno fa anche del sindacato giornalisti, a prendere in mano davvero questa storia e denunciarla con vigore, come invece è accaduto con la morte di Giulio Regeni. Capitò la stessa cosa in passato con la prima strage di Fiumicino, 33 morti per mano palestinese il 17 dicembre 1973. Non fu l’unico episodio (vi rimando al mio “Il grande fuoco”). Ma niente paura. Tutto sotto il tappeto, e non protesta nessuno.

Ma con quella di Regeni, la vicenda Toni-De Palo ha un punto in comune: meglio non disturbare. Perché l’Egitto è oggi rilevante per l’Italia per ragioni geopolitiche ed economiche, come erano rilevanti i palestinesi dopo che il governo con l’accordo oggi conosciuto come Lodo Moro, ottenne dall’Olp l’impegno a non coinvolgere il nostro territorio nelle sue azioni terroristiche, iniziate il 4 agosto 1972 con l’attentato di Trieste, altro episodio lasciato cadere nell’oblio in cambio della tacita comprensione verso chi veniva pizzicato con più o meno grossi arsenali di armi sul suolo nazionale.

Proprio per questo la scomparsa dei due giornalisti free lance, scesi in Libano con l’aiuto dell’Olp stessa – l’ufficio di Roma pagò loro metà biglietto e fornì referenze – ma poi quasi certamente uccisi per mano di una fazione araba per motivi che ancora oggi non sono stati chiariti, divenne una storia da non dire.

Chi sapeva ha eretto un muro. Anzi un muretto, perché la voglia di sapere era poca. A Beirut il centro Sismi, diretto dal colonnello Giovannone che teneva i fili con i palestinesi, entrò in conflitto con l’ambasciata. Un conflitto di cui ai tempi nulla si sapeva, se non nelle stanze della Farnesina e di Forte Braschi al riparo di orecchi troppo curiosi. Il primo depistaggio diceva che i due giornalisti fossero stati uccisi dalla Falange libanese, dai cristiani di Beirut Est, quindi. Il tutto per allontanare ogni sospetto dai palestinesi che avevano proprio in Giovannone il garante. Giovannone si rovinò carriera e salute, non fu condannato per depistaggio perché morì prima, nel 1984, un anno prima della sentenza. E così il capo del Sismi generale Santovito.

Le indagini non piacquero a Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio che, interpellato quando Giovannone oppose il segreto di stato ad alcune domande confermò il segreto di Stato sui palestinesi, segreto che ancora oggi rimane in piedi.

Il documento di Craxi che conferma il segreto di Stato sui rapporti con i palestinesi

Assolto per insufficienza di prove il leader del Fplp George Habbash, unico condannato nel procedimento giudiziario fu il pesce piccolo, il maresciallo Balestra, addetto alla cifra a Beirut, che su pressioni di Giovannone rendeva disponibili al colonnello i messaggi criptati che giungevano all’ambasciata del Ministero degli Esteri.

E’ una storia è complessa e tragica, in cui la ragion di stato ha fatto macelleria di vite e carriere. Una storia che ancora oggi rimane uno dei misteri della Repubblica degli ultimi 40 anni. Vi hanno girato attorno faccendieri, agenti, mestatori, sciacalli. Come quel Elio Ciolini, già allora conosciuto come uomo dalla minima credibilità, che dalla Svizzera si inventò storie incredibili chiamando in causa tutti assieme Gelli, De Michelis, il capo del FDPLP Hawatmeth, cui qualche giudice fece finta di credere, perdendo così mesi e mesi nelle indagini. O il De Michelis falso, autore di una lettera-confessione poi smentita dal De Michelis vero.

In questo tira e molla durato quasi 5 anni in cui pezzi dello Stato facevano di tutto per allontanare qualsiasi sospetto dai palestinesi, in cui la famiglia De Palo, soprattutto la madre di Graziella Renata Capotorti e il fratello Giancarlo, remarono disperatamente contro tutto e tutti per arrivare a uno straccio di verità, si inserisce anche una storia singolare e inquietante, quella di Edera Corrà. Quanto tale vicenda sia stata dall’inizio ingarbugliata e piena trabocchetti, si può già capire da questo telegramma segreto e pieno di dubbi e sospetti (anche sulla Corrà “sedicente giornalista et suo accompagnatore) che l’ambasciatore a Beirut D’Andrea spedì al MAE sei mesi dopo la sparizione dei due giornalisti.

Edera, che sarebbe deceduta due anni dopo, era una giornalista pubblicista quarantottenne, già redattrice di “Cucina italiana” che i primi giorni di ottobre 1980, quindi un mese dopo la scomparsa dei due giornalisti, si era recata in Libano in una vacanza di lavoro con due amici commercianti nei settori delle calzature e chimico con forti agganci arabi. Ufficialmente avrebbe voluto di intervistare il futuro presidente libanese Bashir Gemayel. Appena giunta a Beirut, stando al suo racconto, sarebbe venuta a conoscenza dal Lattanzi, a sua volta imbeccato da un conoscente della sùrete libanese, che due cadaveri di italiani, un uomo e una donna, giacevano nella morgue dell’ospedale americano di Beirut.

La donna poi raccontò che avendo odorato lo scoop, contattò l’ambasciata italiana per poter recarsi all’ospedale per fotografare i cadaveri, ma che i l’ambasciatore D’Andrea non le permise di vederli dicendole che si trattava di una notizia falsa. In poche ore le cose, secondo il racconto della Corrà, precipitarono velocemente tanto che la donna, dopo essere stata contattata da un uomo della sicurezza libanese che le avrebbe consigliato di sparire, iniziò a temere per la sua vita lasciando il Libano subito il giorno dopo e abbandonando i propositi di scoop.

La storia, già di per sé singolare, diventa ancora più strana considerando, come si è saputo dopo, che Edera Corrà era massone, così come massone era Lattanzi, e proprio dal Grande Oriente di Palazzo Giustiniani le era arrivata la richiesta di andare in Libano per intervistare Gemayel. Ma era proprio Gemayel l’oggetto del viaggio? Non era forse che tramite la massoneria qualcuno voleva vederci un po’ più chiaro nella vicenda dei giornalisti scomparsi, aggirando il cordone sanitario di Giovannone? Altra circostanza inquietante il fatto che la Corrà si sarebbe registrata all’Hotel Montemar, dove pernottava, in zona falangista, sotto il nome di Graziella De Palo. Perché una stranezza del genere?

Insomma, una vicenda paradossale all’interno di una storia tragica e dai risvolti ancora misteriosi. Con all’orizzonte sempre i palestinesi – dall’Olp ai gruppuscoli meno addomesticabili – ai quali per l’ennesima volta lo Stato italiano, con l’aiuto di una stampa in gran parte complice o ignava o solo semplicemente imbevuta di quella ideologia terzomondista cui i palestinesi hanno sempre saputo ammantarsi, ha calato le braghe. Qui di seguito potete trovare alcuni documenti che vi raccontano in maniera più plastica lo strano viaggio di Ederà Corrà. Si tratta di una deposizione alla Procura di Roma della Corrà stessa, di un appunto dei Servizi sulla Corrà stessa e sul suo viaggio libanese, e la deposizione di Rolando Lattanzi. Buona lettura.

“Non tutto si sa di quello che successe”

Il punto su ciò che sappiamo e sul tanto che c’è ancora da capire sull’attentato palestinese. Con Massimo Gobessi, nella sua trasmissione radiofonica Rai “Sconfinamenti”, 10 gennaio 2021. Buon ascolto.

I palestinesi fermati lungo il confine austriaco nel gennaio 1973 mentre fuggivano da Vienna dove stavano preparando un attentato al castello di Schonau. Furono portati a Udine e poi liberati dopo due settimane. Erano loro la parte ignota del commando di Trieste?

Alle sorgenti del terrorismo palestinese Ravenstein 6 febbraio 1972. Il reportage di Jan Visschers

Se il sabotaggio alla tank farm petrolifera di Trieste, prima azione terroristica palestinese in Italia, fa ormai parte degli avvenimenti tanto cruciali quanto dimenticati dalla Storia, medesima sorte toccò agli attentati agli impianti di gas e petrolio di Ommen e Ravenstein, in Olanda e Belgio (6 febbraio 1972), che anticiparono di sei mesi l’azione di Trieste.

Sono tanti i legami fra gli attentati nel Nord Europa e quello di Trieste. In primo luogo l’identità dei sabotatori: Marie Therese Lefebvre e Chaban Kadem parteciparono sicuramente alle azioni. La prima come tassista, il secondo come operativo, o forse qualcosa di più, come raccontiamo nei più recenti post di questo blog. Ma soprattutto sono accumunati dal fatto che in entrambi i casi le indagini hanno portato a poco o nulla. A Trieste si arrivò a sentenza, e come ormai è noto nessuno fece un giorno di carcere. In Olanda neppure quello: un professore belga ha pagato per tutti, ma era solamente un fiancheggiatore. Per gli altri, fra Parigi e l’Aia non si riuscì a metter su un’istruttoria decente. Questo apre interrogativi non ancora affrontati compiutamente degli storici sugli accordi segreti che gli stati europei avevano in piedi con i palestinesi. Il peso dell’ideologia è stato opprimente, sinora, a parte singoli casi di ricercatori indipendenti. Domande che attendono risposte, o meglio, la volontà di dare risposte. In paziente attesa che la questione palestinese raggiunga il rango di snodo cruciale nella storia geopolitica italiana ed europea, vi proponiamo il resoconto sull’attentato di Ravenstein di Jan Visschers, che in qualità di addetto alla sicurezza ebbe ruolo decisivo nelle operazioni di spegnimento del fuoco alla stazione di filtraggio della Gasunie. Un resoconto di prima mano mai pubblicato prima, arricchito da preziose notazioni tecniche che rendono la narrazione quantomai interessante.

Qui la traduzione italiana. Più in basso il testo originale in inglese.

Buona lettura.

L’intervento decisivo di Arnold van Uden (in piedi in tuta ignifuga al centro) e di Jan Visschers (disteso a terra sulla destra)

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La notte del 6 febbraio 1972, membri dell’organizzazione terroristica “Settembre nero” fanno un buco nella recinzione del complesso Gasunie a Ravenstein. Gli esplosivi vengono applicati a uno degli scrubber (stazioni di compressione, miscelazione e filtraggio di gas naturale) presenti nel complesso. Intorno alle 4 del mattino, la carica esplode e perfora un buco in un’installazione per l’umidità sotto lo scrubber, provocando un flusso di gas incontrollato che si accende.

Jan Visschers, un dipendente della Gasunie che vive a Ravenstein, che ha il turno di guardia quella notte in particolare, viene chiamato dal PCC (Posto di comando centrale) a Groningen, che lo informa di un allarme antincendio con arresto di emergenza. Ian Visschers guida il più velocemente possibile verso la stazione dove arriva all’incirca nello stesso momento del suo collega Arnold van Uden di Overlangel, che era stato svegliato dalla prima esplosione e che può vedere l’incendio dalla sua casa. Insieme vanno alla sala di controllo della stazione per controllare che cosa sia successo e verificare lo stato di tutti i tipi di rapporti.

Viene inoltre stabilito un contatto diretto con il PCC a Groningen. Una delle valvole di blocco delle stazioni (valvola di intercettazione di un tubo del gas in entrata) emette un messaggio lampeggiante che indica una posizione intermedia. Tutte le altre valvole di intercettazione si trovano nella posizione desiderata in base agli arresti di emergenza automatici.

Ora sono arrivati ​​anche i vigili del fuoco di Herpen e Ravenstein, ma dopo una rapida consultazione decidono di rimanere fuori dal sito per il momento. Arnold van Uden entra nel sito e gira intorno al fuoco fino alla relativa valvola di intercettazione e scopre che non è completamente chiusa, il che significa che c’è ancora un collegamento alla conduttura di trasporto principale che corre lungo la stazione. Dall’ufficio dell’ingegnere nell’edificio di controllo è possibile avere un’idea realistica delle dimensioni dell’incendio attraverso la finestra.

Immediatamente dopo il ritorno di van Uden nella sala di controllo, ecco la seconda enorme esplosione. “Sembrava una bomba atomica”, dissero gli abitanti della zona. Nella sala di controllo, oltre al botto enorme e molto rumore, si notano solo gli effetti delle lastre del soffitto che turbinano verso il basso.

Tutti le finestre degli edifici in loco sono saltate. L’enorme esplosione è causata dall’esplosione del tubo in uscita di uno scrubber, vicino allo scrubber dove la bomba era stata precedentemente collocata. Il fuoco iniziale si estende in diagonale attraverso il tubo dello scrubber adiacente. Il tubo sta diventando così caldo che l’acciaio di alta qualità e la pressione interna del gas (+50 bar) lo fanno esplodere con il rilascio di un enorme quantità di gas.

Altri danni sono visibili sul sito, come la fessurazione del muro dell’edificio a gas combustibile a circa 80 metri dal fuoco. L’esplosione spinge un pezzo di acciaio come una palla di cannone nella recinzione del sito, a 100 metri dal fiamme. Anche a Ravenstein, a quasi 2 km dall’esplosione, le finestre si rompono. Dopo che il gas in uscita dai tubi collegati al tubo di lavaggio in uscita esploso brucia, il livello dell’incendio ritorna alle dimensioni di subito dopo l’esplosione iniziale. Ciò è determinato dalla quantità di gas che si scarica attraverso la valvola di aspirazione non chiusa e attraverso il foro nel tubo della condensa del scrubber. La quantità di gas che ancora alimenta il fuoco attraverso la valvola di aspirazione che perde, è in parte determinata dalla pressione nel tubo di trasporto principale, come verifica il Posto di comando centrale in consultazione con vari esperti che vengono chiamati. La tubazione in questione viene infine bloccata chiudendo una valvola in un punto vicino a Overloon e da qualche parte vicino a Oss. Tuttavia, questo richiede ore per abbassare la pressione, così da rimettere in funzione la valvola e separare definitivamente la stazione dalla linea di trasporto principale.

Inoltre, il trasporto di gas nel sud dei Paesi Bassi e oltre viene seriamente compromesso. È quindi necessario attendere che si verifichi una tale caduta di pressione così che una valvola sul lato di ingresso dello scrubber possa essere chiusa. A un certo punto quel momento arriva. Arnold van Uden, che indossa una tuta resistente al calore e una corda intorno alla vita si avvicina alla valvola di chiusura. Jan è all’altra estremità della corda (approssimativamente a 20 metri), acquattato a terra vicino a un fosso. La valvola può essere disattivata manualmente ora.

Verso le 09.15 viene chiusa la valvola di intercettazione manuale e il fuoco diventa visibilmente sempre più piccolo mentre brucia il gas rimanente nei tubi. Nelle ore precedenti la chiusura della valvola, brulica movimento all’interno e intorno al sito di Gasunie. L’impegno principale è pompare via il gas dai tubi di trasporto del gas (non interrati) in prossimità del fuoco. A causa del calore, la pressione aumenta al di sopra della pressione massima consentita. Il sindaco della città Ravenstein decide quindi di evacuale gli abitanti del villaggio da Overlangel. Il CCP di Groninga decide di aumentare la compressione del gas nelle rimanenti condotte di trasporto a nord di Ravenstein. Pertanto, il trasporto e la fornitura di gas a sud di Ravenstein è assicurato. (la provincia di Noord-Brabant e Limburg, nonché le contee del Belgio e della Francia).

I vigili del fuoco estinguono gli incendi spontanei (causati dal calore estremo) che interessano alcuni filtri e avvolgi cavo vicini all’edificio del gas combustibile.

Resoconto di Jan Visschers, impiegato in pensione della Gasunie. Dicembre 2020

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At night, the sixth of February, 1972, members of the terrorist organisation “Black September” cut a hole in the fence at the Gasunie complex in Ravenstein. Explosives are applied to one of the scrubbers (filter installations) at the site. Sometime later, around 4am., the charge explodes and punctures a hole in a moisture trap under the scrubber, causing an uncontrolled gas flow that ignites.

Jan Visschers, a Gasunie employee living in Ravenstein, who has the watch duty that particular night, is called by the CCP (central command post) in Groningen, informing him of a fire alarm with an emergency stop. He drives as quickly as possible to the station where he arrives at approximately the same time as his colleague Arnold van Uden from Overlangel who had been awakened by the first explosion and who can see the fire from his house. Together they go to the station control room to check wat has happened and check the status of all kinds of reports.

Direct contact is also made with the CCP in Groningen. One of the stations block valves (shut-off valve of an incoming gas pipe) gives a flashing message which means that it indicates an intermediate position. All other shut-off valves are in the desired position in accordance with the automatic emergency stops.

The fire brigades of both Herpen and Ravenstein have now also arrived but after consultation they decide to stay outside the site for the time being. Arnold van Uden enters the site and walks around the fire to the relevant shut-off valve and finds that the shut- off valve is not completely closed, which means that there is still a connection to the main transport pipeline that runs along the station. From the engineer’s office in the control building you can get a good impression of the size of the fire through the window.

Immediately after van Uden returns to the control room, the second enormous explosion occurres. Later qualified by many viewers in the area as: “It looked like an atomic bomb”. In the control room, besides the enormous bang and a lot of noise, only the effects of the ceiling plates swirling down are noticeable.

All windows of the buildings on site are blown out. The huge explosion is caused by the exploding of the outgoing pipe of a scrubber, next to the scrubber where the bomb was previously placed. The initial fire is throwing it’s flames diagonally across the pipe of the adjacent scrubber. The pipe is becoming so hot that the hight-quality steel and the internal gas pressure (+50 bar) causes it to explode and an enormous amount of gas to release.

Other damage visible on the site, such as cracking of the wall of the fuel gas building about 80 meters from the fire. The explosion propels a lump of steel like a cannon ball into the fence of the site, 100 meters away from the flames. Even in Ravenstein, almost 2 km from the explosion, windows shatter. After the outflowing gas from the pipes connected to the exploded outgoing scrubber pipe burns up, the level of the fire returns to the size of the fire after the initial explosion. This is determined by the amount of gas which releases through the non-closed suction valve and through the hole in the condensate pipe of the scrubber. The amount of gas that still feeds the fire via the leaking suction valve is partly determined by the pressure in the main transport pipe.

The action on this is determined by the CCP in consultation with various experts who are called in. The pipeline in question is eventually blocked by closing a valve at a valve location near Overloon and somewhere near Oss. ​However, this takes hours to lower the pressure if one wants to go all the way back to such a low pressure that the leaking valve can be set in motion again to permanently separate the station from the main transport line.

Furthermore, gas transport to the south of the Netherlands and beyond will be seriously compromised. It is therefore necessary to wait until such a pressure drop will occur that a valve on the incoming side of the leaking scrubber can be closed. At one point that time has come. Arnold van Uden fitted in a heat-resistant suit and a rope around his waist walks up to the shut-off valve. Jan at the other end of the rope (approximately at 20 meters). Flat on the ground near a ditch. The valve can be turned off manually now.

At approximately 09.15am the manual shut-off valve closes and the fire gets visibly smaller and smaller while the remaining gas in the pipes burns up.. In the hours prior the closure of the valve, there are all kinds of activities at and around the Gasunie site. One of those activities consists of blowing off gas from gas transport pipes (above ground) near close proximity from the fire. Due to the heat of the fire the pressure builds up above the maximum allowed pressure. Due to some uncertainties, the mayor from the city Ravenstein evacuates the residents of the village from Overlangel. The CCP at Groningen takes several actions such as compressing the gas pressure in the two remaining gas transport pipelines north of Ravenstein. Therefore, the transport and supply of gas south of Ravenstein is secured. (the province of Noord-Brabant and Limburg, as well as the counties of Belgium and France).

The fire brigade extinguishes spontaneous ignited fires (caused by the extreme heat) at filters and cable reels a few times (at 6 and +/- 7 hours) near the fuel gas building.

Eyewitness account of Jan Visschers, retired Gasunie employee. December 2020

Marie Therese Lefebvre, il mistero buffo

Ci hanno portato in Alta Garonna, Occitania, le nostre ricerche sui fantasmi dell’attentato all’oleodotto Siot.

Ma ne è valsa la pena.

Il fantasma più inquietante, condannato per l’attentato esplosivo del 4 agosto 1972, eppure mai comparso in un tribunale italiano, si è materializzato in una cittadina del sud ovest della Francia di poco meno di 26mila abitanti. Di nome fa Tournefeuille. E’ lì, nell’Alta Garonna che, il 25 gennaio 2015 è morta a 88 anni Marie Therese Paule Lefebvre.

La cittadina francese di Tournefeuille, in Occitania

Lefebvre, figura chiave nella vicenda dell’attentato palestinese alla tank farm di Trieste, piombò nelle indagini nel novembre 1972, chiamata in causa a Parigi dal testimone algerino Lamri Bouadiche, il quale raccontò che la donna francese aveva partecipato in quell’autunno a Parigi all’omicidio del giornalista giordano Khannou Khor e – nel febbraio di quell’anno – ai due attentati dinamitardi alle centrali di filtraggio e compressione gas di Ommen e Ravenstein, in Olanda. Sempre uguale il suo ruolo: guidava le automobili che trasportavano assassini e attentatori.

I giudici italiani si misero a indagare con grande fatica e poca collaborazione da parte dei loro colleghi francesi, e scoprirono che Levebvre, giunta in aereo da Parigi, noleggiò a Mestre una Ford Taunus rosso amaranto e trasportò a Trieste il commando e l’esplosivo: quei 30 chilogrammi di tritolo che fecero saltare in aria i serbatoi mandando a fuoco 160mila tonnellate di greggio che attendeva di venir pompato in Germania. Sono le misteriose vicende racconto nel mio libro Il grande fuoco (2015, Mgs Press) e che tratto in altri post in questo blog.

La prima pagina della sentenza di primo grado. Si leggono chiaramente gli indirizzi delle due imputate, a quel tempo descritte dalla stampa italiana come “ombre

Il destino di Marie Therese Lefebvre si intersecò con quello di Dominique Iurilli, anche lei accusata e poi condannata per l’attentato di Trieste. Più giovane di Levebvre, come abbiamo da poco scoperto e scritto nell’articolo precedente di questo blog avrebbe iniziato a indagini in corso (l’estradizione dalla Francia all’Italia non venne mai chiesta) una brillante carriera giornalistica con il nome di Dominique Bari.

Dominique Iurilli ventiquattrenne al tempo dell’attentato
Dominique Bari in un’immagine recente
Recenti articoli di Dominique Bari

Ma era Levevbre colei che aveva i contatti con il “cervello” dell’operazione Mohamed Boudia, colei che si fece musulmana per ideologia e per amore. Colei che, assieme a Iurilli, sembrò scomparire nel nulla (così scriveva la stampa in quei giorni di fine 1972) dopo le timide indagini delle autorità francesi.

L’attentato alla tank farm Siot di Trieste visto dalle alture di San Servolo,
al confine con l’allora Jugoslavia

Si pensava ad avventurose fughe, a cambiamenti radicali di identità, a operazioni di esfiltrazione sotto copertura. Niente di tutto questo. Mentre a Trieste si continuava a indagare – la sentenza di primo grado, che condannò Lefebvre, Iurilli, Boudia e l’algerino Kadem (ormai ultimo fantasma di questa storia), arrivò nel 1978 con la condanna a 22 anni per tentata strage – Iurilli già nel 1977 iniziava a lavorare all’Humanité, il giornale del partito Comunista francese, attività che ancora oggi svolge come notista di cose di geopolitica che accadono a est di Dubai.

Di Marie Therese Lefebvre invece non si sapeva nulla. La sua posizione giudiziaria, in quanto partecipante, seppure come “tassista”, all’omicidio di Khannou Khour, era molto pesante, eppure tutto era finito nel nulla. Nessuna traccia di condanna. Ne’ per questo episodio, né per le azioni dinamitarde a Ommen e Ravenstein. Dalla Francia mano di velluto. Se proprio volevano, ci pensassero gli israeliani. Per Boudia infatti, diventato dopo la morte di Mahmud Hamshari – ucciso a Parigi da un telefono al tritolo – il responsabile delle operazioni del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina in Europa, il Mossad preparò un simile destino: una mina a pressione sotto il sedile dell’auto, la mattina dopo una notte galante a Parigi. Era fine giugno 1973. Lefebvre invece niente. Sparita.

Cosa la donna, di professione massaggiatrice e chiroterapeuta, abbia fatto nella seconda parte della sua vita (aveva 45 anni nel 1972), rimane un mistero. Ma è sicuramente un mistero dai contorni meno foschi di quanto in tanti avessimo pensato. Madre di due figli, Marc e Beatrice, probabilmente ha condotto semplicemente la sua vita, senza essere costretta a indossare pseudomini, certa di essere protetta, e terminando i suoi giorni in Occitania. Con l’aiuto, possiamo immaginare, di un sistema di copertura che iniziava all’Eliseo per arrivare a sulle sponde del Giordano passando per Roma.

Il sistema di protezione che veniva attivato per chi era coinvolto in attentati di matrice palestinese, e che in Italia poi venne chiamato “Lodo Moro”. Ma che, lo si afferra sempre più, contava su una serie di omertà che coinvolgeva politici, diplomatici e giornalisti. Anche italiani. Nel nome, come sempre, del Mediterraneo. E dell’oro nero infrattato lungo le sue coste.

Ommen e Ravenstein: la versione olandese

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Se l’attentato ai depositi Siot di Trieste è finito nel silenzio e nell’impunità sostanziale  dei colpevoli ma ha avuto, almeno inizialmente, grande clamore (era il primo attentato palestinese Italia, iniziava una storia ancora oggi non decrittata), nel febbraio 1972, in Olanda, gli attentati alle stazioni di compressione, miscelazione e filtraggio di gas naturale Gasunie di Ommen e Ravenstein sono stati raccontati con ancor più timidezza.

Si era sei mesi prima di quel 4 agosto quando a Trieste si levarono le impressionanti colonne di fumo frutto della combustione di 160mila tonnellate di petrolio.  Il collegamento fra i tre eventi arrivò da Lamri Bouadiche, un algerino costretto a vuotare il sacco a Parigi, negli uffici della questura di Quai des Orfeves. Era il novembre 1972, gli investigatori non avevano ancora il fiato sul collo della politica, che poi insabbiò tutto.

Bouadiche era stato convocato per un omicidio, commesso a Parigi il 13 dello stesso mese. Quello del giornalista siriano Kannou Khor, sospettato di essere spia degli israeliani, in un appartamento di  Rue Copernic, vicino all’Arco di Trionfo.  E da lì fu una reazione a catena, come tessere di un domino che cadono una dopo l’altra. La storia la racconto nei particolari nel mio “Il grande fuoco”.

In sintesi, Bouadiché  tirò fuori il nome di Marie Therese Lefevbre, raccontando che la donna  aveva fatto l'”autista” del commando sia a Rue Copernic, sia a Ommen e Ravenstein, sia a Trieste, sino allora fuori dagli orizzonti investivi. E che in Olanda c’era anche Chaban Kadem, e che quindi gli attentati olandesi e Trieste erano stati compiuti dallo stesso gruppo. La cosa curiosa è che a Parigi dalla polizia olandese erano arrivate rogatorie su Bouadiche, ma non risultano vere e proprie indagini, quindi nemmeno condanne, per i due attacchi in Olanda.

Bouadiche raccontò di aver ricevuto le informazioni per gli attentati di Ommen e Ravenstein, via Bruxelles, da un agente di collegamento, certo Halim. E che l’uomo che condusse il commando per i Paesi Bassi era un belga, Stefano Van der Bremt. Negli appunti sequestrati a Bouadiche nella sua abitazione, anche numeri di telefono che rimandavano a presunti fiancheggiatori italiani. Ma su questo torneremo in futuro. Lefevbre, interrogata a Parigi, ammise il suo ruolo di “tassista”, ma disse di sapere ben poco sui reali scopi di quel le operazioni.  Da quegli interrogatori  affiorò Trieste, ma la faccenda olandese finì nel nulla, nonostante la responsabilità di Settembre Nero per Ommen e Ravenstein fosse stata rivendicata da un settimanale di Beirut, vicino a Fatah, “Jissad Al Assifat” (Raccolto di tempesta).

Su Ommen e Ravenstein ci sono tornato dopo i contatti con un olandese, che ringrazio, figlio di un ingegnere responsabile alla manutenzione e alle riparazioni all’impianto di Ravenstein, stupito che avessi citato nel mio libro quegli attentati di cui in Olanda esiste pochissima memoria.  Così scrive l’amico olandese:

My father was working at the gas plant in Ravenstein. At night on the 6th of Feb 1972, my father was the man who was to be called at night, in case of any problems. So he and his collegue were present shortly after the first explosion that damaged a gas pipe and the heat of those flames bursting out caused the big mushroom cloud explosion of a big nearby gas pipe. Together my father and his collegue played an important part of ending the fire”.

Ho poi saputo che la polizia olandese si recò a Parigi per gli interrogatori, nella persona del capo della polizia Jan Blaauw, ma nessuno venne estradato. L’ipotesi è che il governo olandese non fosse in grado di gestire quella storia, in un momento in cui i palestinesi avevano deciso di estendere le loro azioni terroristiche fuori dal Medio Oriente. L’amico olandese, mi racconta anche che all’Archivio nazionale il file su Bouadiche non è pubblico per “ragioni di sicurezza nazionale”. Più che un indizio, è una prova…

Ecco alcune foto e documenti che ci portano al cuore di quegli eventi dimenticati

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Il fuoco a Ravenstein. Notare le dimensioni delle unità filtranti comparate a quelle dei due soccorritori in tuta ignifuga. Vicino al fuoco Arnold van Uden. A destra, disteso, Jan Visschers, pronto a intervenire per strappare via dal fuoco il collega se necessario (NOS broadcasting company courtesy)

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Ravenstein, 6 febbraio 1972, il fuoco nella notte

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Ravenstein, gli impianti di filtraggio semidistrutti dopo l’esplosione e l’incendio (foto: Van Sas / Blakenburg)

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Ravenstein, la palla di fuoco aggredisce gli impianti di filtraggio (foto: Van Sas / Blakenburg)

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La colonna di fumo e fuoco nella notte dopo l’esplosione a Ravenstein

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Ravenstein dall’alto in una foto di un quotidiano olandese dell’epoca (Foto Dick Lemcke)

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Il cratere formato dall’esplosione a Ommen (NOS broadcasting company courtesy)

I fantasmi esistono e sono fra noi

Il fantasma in questione potrebbe essere Dominique Iurilli, una delle due donne francesi condannate  – l’altra è Marie-Therese Lefevbre – per l’attentato all’oleodotto Siot di Trieste del 4 agosto 1972 da cui ha tratto linfa questo blog che continua idealmente il discorso iniziato con il mio libro “Il grande fuoco”. Ne abbiamo parlato precedentemente, per esempio nel post “La bella Dominique”, datato 15 maggio 2015, e “Il confronto grottesco. Le due Dominique e la riga in mezzo” del 21 settembre 2015.

Sei anni di carcere per incendio doloso in appello, dopo che in primo grado arrivarono addirittura 22 anni per tentata strage. Poco importa. Nessuno, né Lefevbre, né Iurilli, né l’algerino Chaban Kadem, né gli altri presunti partecipanti all’azione mai individuati (erano almeno 8 secondo il giudice istruttore) né i presunti fiancheggiatori italiani, men che meno l’organizzatore dell’attentato Mohamed Boudia, pezzo grosso del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina poi ucciso nel giugno 1973 dal Mossad, si sono fatti un giorno di prigione in Italia. Nessuno era presente al processo, primo grado dicembre 1977, appello giugno 1977, procedimenti che i giornali dell’epoca titolarono come “Processo alle ombre”. Dopo le sentenze, su quell’attentato di Settembre Nero, prima azione palestinese su suolo italiano, e dopo l’estrema protezione accordata alle persone coinvolte dalle autorità giudiziarie (e politiche) francesi, scese il silenzio. Anche su Dominique Iurilli, studentessa e attrice di teatro a tempo perso, frequentatrice dei corsi tenuti al Teatro parigino dell’Ovest di Mohamed Boudia, coinvolta in questa storia dal supertestimone Lamri Bouadiche. E non è un caso neppure questo, dato che Trieste 1972 aprì la serie di attentati che un anno e mezzo dopo portarono all’accordo fra governo italiano e organizzazioni palestinesi, noto oggi come Lodo Moro: in parole povere l’accordo concedeva possibilità per i palestinesi di portare armi su e giù per il territorio nazionale, in cambio della promessa di non eseguire più attentati in Italia e di mettere una buona parola con i paesi arabi produttori di petrolio. Roba indicibile, allora, e anche oggi vissuta da alcuni con un certo mal di pancia. Si veda per esempio le reazioni alla pista palestinese sulla strage di Bologna. Roba che giustificava la trasformazione in “ombre” dei protagonisti delle azioni. O così fu, per decenni.

Oggi siamo però venuti a scoprire che sotto il lenzuolo di uno dei fantasmi, si celerebbe una persona in carne e ossa. Una giornalista, Dominique Bari

Dominique Bari, già Iurilli, ha lavorato in tutti questi anni all’Humanité, il potentissimo (un tempo) giornale del Partito Comunista Francese. Sposò nel 1983 – quindi quattro anni dopo la sentenza di appello che neppure scalfì i condannati – Jean-Émile Vidal, anch’egli giornalista militante all’Humanité, prestigioso corrispondente dell’Estremo Oriente e vicino al Partito Comunista. I due hanno avuto una figlia. Dopo la pensione, Vidal è tornato in Asia con Dominique che a sua volta è diventata corrispondente per l’Humanité da Pechino dal 1988 al 1993 .  Dominique Iurilli/Bari è sopravvissuta al marito, scomparso nel 2002, e sino a oggi ha continuato a scrivere di Estremo Oriente come notista politica di spessore.

https://www.humanite.fr/auteurs/dominique-bari-615825

Il ruolo di Dominique Iurilli nella storia dell’attentato di Settembre Nero alla Siot non è stato chiarito, e appare più defilato di quello di Marie Therese Lefebvre che, a differenza di Iurilli, prese parte anche alle azioni in Olanda e, nell’autunno di quel 1972, all’omicidio del giornalista siriano Khannou Khor, considerato informatore degli israeliani. La sua presenza a Venezia è piena di buchi neri, e della Fiat 850 che avrebbe secondo Lefevbfre noleggiato non c’è l’ombra di un documento. Lei ha sempre negato tutto, e il confronto del 1974 con Lefevbre ha davvero i crismi del teatro dell’assurdo: io non sono quella che dite, anche Lefevbre afferma che io non sono quella, anche se è vero che conosco Boudia ed è vero che frequentavo il suo teatro. Marie Therese Lefevbre, per chiudere il cerchio, aveva dichiarato che la Dominique Iurilli che aveva conosciuto a Venezia, non era la Dominique Iurilli che aveva lì davanti in questura bensì un’altra persona. Che comunque gli era stata presentata da Boudia come giovane aspirante attrice che frequentava il  suo teatro.

 

Rimane il fatto che la verità giudiziaria dice che è stata condannata come partecipante all’attentato di Trieste. Per quel che riguarda la verità storica, essendo passato ormai mezzo secolo da quella storia, sarebbe interessante che la signora racconti qualcosa. Magari anche per chiarire o smentire il suo ruolo.

L’informazione è arrivata grazie all’aiuto di un olandese interessato a queste vicende, che ringrazio vivamente. Suo padre lavorava alla stazione di compressione e miscelazione  di gas a Ravenstein, nei Paesi Bassi, oggetto il 6 febbraio 1972 assieme alla stazione di Ommen, quindi cinque mesi prima di Trieste, dei due attentati dinamitardi, cui parteciparono Marie-Therese Lefevbre e Lamri Bouadiche, l’uomo che poi vuotò il sacco sull’attentato di Trieste.

 

Bologna, il labirinto infinito

Quarant’anni di fascicoli affiancati, sovrapposti, elisi. Strage neofascista, atlantica, palestinese. Presunti depistaggi e impistaggi finiti a giudizio, cadaveri scomparsi e reperti biologici ritrovati. Quattro esecutori, dice la verità giudiziaria. E militari, esplosivisti, faccendieri entrati e usciti da una porta girevole in cui pochissimi alla fine sono rimasti impigliati.

La Strage di Bologna, nonostante sentenze passate in giudicato e commemorazioni che si ripetono ogni 2 agosto da 40 anni, ha diviso e continua a dividere. Memorie specularmente irriducibili, senza margine di composizione.

Con Gabriele Paradisi, fra i maggiori esperti sull’argomento, autore del libro “Dossier strage di Bologna-La pista segreta”, scritto assieme a Gian Paolo Pelizzaro e Francois de Quengo de Tonquédec, abbiamo ripercorso questa tragica vicenda – ultimo capitolo la nuova pista sui mandanti – ricostruendone la complicata storia giudiziaria. Speriamo che dopo la lettura, il nodo di questo vero e proprio “segreto della Repubblica” si sciolga un po’ anche per voi.

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Gabriele, riusciamo a mettere un po’ d’ordine in questa complessa vicenda? Prima c’erano Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, poi ecco Thomas Kram, poi Maria Fresu, i cui poveri resti mortali sono diventati una sorta di ostaggio virtuale, e d’un tratto è ricomparso Licio Gelli, ed è comparso addirittura Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’interno. C’era un’indagine in corso e pochi lo sapevano. Riusciamo a mettere in fila i puntini?

«Tutto è nato nel 2005, quando la Procura di Bologna ha aperto un fascicolo su una nuova pista investigativa sulla strage alla stazione – che poi, anni dopo in linguaggio giornalistico, verrà chiamata pista palestinese. La Procura fu “costretta” ad aprire quel nuovo fascicolo a seguito di una interpellanza parlamentare urgente (2-01636), presentata il 28 luglio 2005, primo firmatario Vincenzo Fragalà, nella quale venivano sintetizzati i risultati dell’indagine svolta fino a quel momento dal consulente della Commissione Mitrokhin Gian Paolo Pelizzaro. La nuova pista investigativa sulla strage di Bologna era stata resa nota il 20 luglio 2005 a Montecitorio durante una conferenza stampa, curata dallo stesso Pelizzaro, di presentazione del numero del mensile “Area” del luglio-agosto 2005 intitolato “Strage di Bologna, a un passo dalla verità”. Il 25 luglio 2005, a neanche una settimana di distanza dalla conferenza stampa di Montecitorio, Pelizzaro fu in grado – dopo un quarto di secolo – di disseppellire il nome del «compagno» tedesco presente in stazione al momento dell’esplosione dell’ordigno (così come cripticamente rivelato da Carlos in una intervista pubblicata sul “Messaggero” il 1º marzo 2000): Thomas Kram. La notizia della nuova inchiesta giudiziaria sulla strage che la Procura di Bologna aveva aperto fu rivelata il 17 novembre 2005 dal “Corriere della Sera”. Infine, il 23 febbraio 2006 Gian Paolo Pelizzaro e il magistrato Lorenzo Matassa depositavano agli atti della Commissione Mitrokhin la “Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980”. Questa relazione, di 180 pagine, è stata distribuita ai giornalisti nel corso di una conferenza stampa tenuta dal deputato Enzo Raisi a Bologna il 6 aprile 2006. È il testo fondamentale per comprendere che cosa è veramente la pista palestinese. Uno dei due autori, ha considerato questa relazione una «discesa negli abissi dei segreti della prima Repubblica». L’impianto della pista palestinese indica movente, mandanti, minacce, esecutori e depistaggi. Ciò mandò in fibrillazione più di qualcuno, e il 27 luglio 2011, vedi caso un giorno prima dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato di Thomas Kram e Christa-Margot Fröhlich, su esposto dell’associazione dei familiari, la Procura di Bologna ha aperto un fascicolo contro ignoti per la ricerca dei mandanti. Da quel momento l’apparato dello status quo ha cominciato a inondare la Procura di documenti afferenti alla cosiddetta “strategia della tensione”. Documentazione nota, ben poco materiale inedito. L’obiettivo: far sì che si aprisse un fascicolo sui “mandanti”. La sentenza Mambro-Fioravanti, lo ricordo, è orfana dei mandanti, e questo, assieme alla mancanza di un vero e proprio movente, è sempre stato considerato non a torto il suo punto debole, ma non il solo».

È bastato quindi un pacco di documenti.

«Il Procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato l’8 marzo 2017 in realtà aveva chiesto l’archiviazione di questo filone di indagini sui mandanti, ma il 25 ottobre dello stesso anno la Procura generale presso al Corte di Appello di Bologna ha avocato a sé l’indagine».

Strage Bologna3

E poco se ne era parlato sino due mesi fa.

«Negli ultimi due anni ha tenuto banco un altro processo, sempre per quanto riguarda la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, quello a Gilberto Cavallini che in tanti, io compreso, credevamo si trattasse di una sorta di “contentino” dato ai familiari delle vittime, la cui Associazione da anni chiedeva – per carità legittimamente – indagini sui burattinai della strage, che essi individuano nel contesto della cosiddetta “strategia della tensione”. In realtà, oltre al processo Cavallini, la Procura generale è andata avanti anche sul filone mandanti».

Mentre infuriavano le discussioni e le polemiche in tribunale sul cosiddetto “lembo facciale” e sull’ipotesi di una 86ª vittima, che ben poco risalto hanno avuto sulla stampa, anche su quella di centro-destra.

«Portare sino in fondo queste indagini sulla 86ª vittima avrebbe forse portato a conclusioni indigeste, per usare un eufemismo. Viceversa questo filone sui mandanti ha proceduto parallelamente al processo Cavallini e il 10 febbraio 2020 si è arrivati alla notifica della conclusione delle indagini preliminari. Appena poche settimane dopo che la questione del lembo facciale, attribuito inizialmente ed erroneamente a Maria Fresu grazie alla teoria della cosiddetta “secrezione paradossa”, e alla probabile esistenza di una 86ª vittima, vedevano la pietra tombale con la sentenza di primo grado, che ha inflitto l’ergastolo per concorso in strage a Gilberto Cavallini, quarto colpevole – per la giustizia – dopo Fioravanti, Mambro e Luigi Ciavardini».

Ci torneremo. Restiamo sulle ultime notizie. Gli avvisi di reato per quattro soggetti, e l’individuazione come mandanti e finanziatori di altre quattro persone decedute. E poi i vecchi condannati. Un allargamento della platea sempre nell’ambito della pista Fioravanti-Mambro.

«Ecco chi sono: Paolo Bellini, neofascista di Avanguardia nazionale, accusato di essere il quarto esecutore materiale; il generale Quintino Spella, ex capocentro del Sisde a Padova, accusato di false dichiarazioni per aver negato, agli inizi del 2019, l’esistenza di incontri avvenuti nel luglio 1980 con il magistrato di Padova Giovanni Tamburino. Quest’ultimo, dopo il 2 agosto 1980, sostenne di aver ricevuto dichiarazioni da un detenuto, Luigi Vettore Presilio, il quale gli aveva annunciato l’imminenza di un grave attentato “di cui avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo”; Piergiorgio Segatel, ex carabiniere, accusato di aver negato, il 12 aprile 2019, che la moglie di Mauro Meli, esponente di Ordine Nuovo, gli avesse raccontato che “qualcosa di veramente grosso” stava per accadere, oltre ad altre dichiarazioni considerate non veritiere; infine, ultimo tra i vivi, Domenico Catracchia, immobiliarista romano, accusato di reticenza nell’ammettere che il vecchio Sisde a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 si serviva della sua agenzia, e per aver negato di aver concesso in affitto ai Nar un appartamento di via Gradoli 96 a Roma. Per farla breve, in via Gradoli oltre al covo Br e ad appartamenti di proprietà di agenzie legate ai servizi, ci sarebbero stati anche due covi dei Nar, e la reticenza, secondo i magistrati, sarebbe dovuta alla necessità di nascondere i rapporti che esistevano fra eversione neofascista e servizi».

Via Gradoli 96? Ho capito bene? Dove c’era il covo Br abitato da Moretti e Balzerani?

«Sì proprio quello. Catracchia era nel 1978 l’amministratore di condominio dell’immobile di via Gradoli 96. E ovviamente la cosa ha già mandato in fibrillazione i segugi della pista atlantica per quanto riguarda il caso Moro. La storia dell’affitto ai Nar risale invece al settembre-novembre 1981, tre anni e mezzo dopo la scoperta del covo Br (18 aprile 1978)».

Questi sono i vivi.

«Esatto. Poi ci sono i morti, ma sono morti che pesano. Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, e Umberto Ortolani, altro nome apparso più volte nelle cronache di questi decenni, socio in affari in Sudamerica di Gelli, già accusato e prosciolto per Bologna, faccendiere coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano e nel fallimento Rizzoli. Loro due, secondo la Procura generale, sarebbero i mandanti-finanziatori della strage di Bologna. Poi viene indicato Federico Umberto D’Amato, il controverso direttore dell’Ufficio Affari Riservati, protagonista di varie iniziative di disinformazione e depistaggio durante gli anni della cosiddetta “strategia della tensione”, che dall’Ufficio venne rimosso nel 1974».

Per approdare alla direzione della Polizia di frontiera…

«So dove vuoi arrivare. Alla perquisizione di Thomas Kram al posto di polizia di frontiera di Chiasso il primo agosto 1980. D’Amato era il capo supremo della struttura. Poteva non sapere? È bene ricordare che dal 12 maggio 1980, il nome di Thomas Kram era inserito nella Rubrica di Frontiera per provvedimento di perquisizione sotto aspetto doganale e segnalazione per riservata vigilanza. E come avrebbe potuto D’Amato non utilizzare il passaggio dell’esperto in esplosivi delle Cellule rivoluzionarie tedesche (secondo quanto si legge in un mandato di cattura della Corte federale di Germania del dicembre 2000) – e membro del gruppo Carlos (come risulta da un documento della Stasi che lo inserisce al numero 7 nella nomenklatura di quel gruppo) diretto apparentemente a Milano, ma che in realtà se ne va a Bologna? E se D’Amato poteva utilizzare questa informazione, mettiamo fosse stato davvero il Grande Vecchio della strage di Bologna, perché non lo ha fatto?».

Anche su Kram ci torniamo dopo. Restiamo ai morti?

«Restiamo ai morti. Piduisti ovviamente, che non possono più parlare. Quarto uomo Mario Tedeschi, giornalista, direttore dal 1957 al 1993 del settimanale “il Borghese”, che fu senatore del Movimento sociale-Destra nazionale e poi di Democrazia nazionale-Costituente di destra (1972-1979), il quale, a detta dei magistrati Nicola Proto, Umberto Palma e Alberto Candi, avrebbe coadiuvato D’Amato nella gestione mediatica della strage, depistando le indagini. Poi ci sarebbero ancora “altre persone da identificare”, oltre ai quattro esecutori, di cui tre già condannati con sentenze definitive».

Ecco i mandanti quindi, ed ecco il movente. Quello solito. Destabilizzare per stabilizzare. Cosa c’era da stabilizzare, nel 1980?

«A Bologna sono tetragoni nel sostenere questo tipo di narrazione. Si viaggia all’interno del perimetro ideologico della “strage fascista”, caro sin dal primo giorno al Pci e alla sinistra in genere, e agli apparati di riferimento, cito l’Associazione familiari delle vittime presieduta da Paolo Bolognesi (deputato eletto come indipendente nelle liste del Partito democratico nella XVII Legislatura, 2013-2018; e componente della seconda Commissione Moro). A testimonianza di queste “condizioni ambientali politiche ed emotive”, come le definì il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga nel luglio 2005, dobbiamo notare che la lapide commemorativa della strage, scoperta in stazione il 1° agosto 1981, a un anno dalla strage, riporta la scritta “vittime del terrorismo fascista”, 14 anni prima della condanna dei neofascisti dei Nar. Dunque parrebbe una sentenza già scritta. Stavolta vengono individuati i presunti mandanti, nomi fra i più spiccati rappresentanti del complottismo atlantico e della strategia della tensione. Solo che piazza Fontana avvenne undici anni prima di Bologna nel 1969, piazza della Loggia sei anni prima nel 1974. Parlare di strategia della tensione quindi come movente per Bologna, o genericamente di “filo nero” significa, per ora, nulla. Parlare di inizio del progetto terroristico nel 1979 in “località imprecisata”, idem. Io credo che estendere oltre il 1974 lo schema della “strategia della tensione” sia una semplificazione astorica. Dal punto di vista geopolitico l’Italia, l’Europa e il mondo dei primi anni ’70 non hanno nulla a che vedere con il 1980. Fino al 1974 nel sud Europa vi erano tre dittature di destra – il Portogallo, la Spagna di Franco, la Grecia dei colonnelli – nel 1980 in quei tre Paesi era tornata la democrazia e l’Unione sovietica e il blocco dei Paesi del patto di Varsavia cominciavano a mostrare evidenti segni di crisi. Che senso poteva avere una strage di innocenti in Italia? Cosa c’era da stabilizzare? Inoltre, dopo l’uccisione di Aldo Moro il 9 maggio 1978, nel 1980 era già tramontata la stagione della solidarietà nazionale con i due monocolori Dc guidati da Giulio Andreotti e sostenuti anche dal Pci (1976-1979). All’epoca della strage di Bologna, era presidente del Consiglio Francesco Cossiga».

Strage Bologna2

Si parla di flussi di denaro che da un conto svizzero gelliano scoperto nel 1982 in una cartelletta con intestazione “Bologna”, sarebbero finiti indirettamente ai Nar, esecutori della strage.

«Ecco appunto, si dovrebbe intanto spiegare come mai e perché Fioravanti, Mambro e camerati, ricoperti di milioni da Gelli, Ortolani, appena tre giorni dopo la strage di Bologna, il 5 agosto 1980, abbiano compiuto una rapina a Roma, in un’armeria di Montesacro, per poi recarsi a dormire in un alberghetto di terza categoria, con documenti falsi. Poveri in canna e ben poco desiderosi di sparire dopo quel massacro che avrebbero compiuto a Bologna. Da ricordare anche che i tre Nar, condannati con sentenze definitive, furono arrestati entro un anno e mezzo dalla strage: Luigi Ciavardini il 3 ottobre 1980 (2 mesi dopo la strage); Valerio Fioravanti il 5 febbraio 1981 (6 mesi dopo la strage); Francesca Mambro il 5 marzo 1982 (un anno e mezzo dopo la strage)».

Analizzati gli ultimi sviluppi, torniamo all’inizio se ti va.

«L’inizio… Ci sono tanti inizi… Possiamo partire dal depistaggio di cui sono stati protagonisti Licio Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, tutti condannati per calunnia aggravata [depistaggio]. Il 13 gennaio 1981 sull’espresso Taranto-Milano, su segnalazione dei servizi, venne trovata una valigia con esplosivo, biglietti aerei, armi, oggetti personali di due ipotetici, probabili estremisti di destra stranieri. L’obiettivo era, a prima vista, quello di indirizzare le indagini verso gli ambienti dell’estrema destra internazionale. In realtà una serie di dettagli riconducevano proprio ai Nar. Non a caso Andrea Colombo, giornalista del “manifesto”, molto onestamente in un suo libro su Bologna, ha chiamato l’operazione “Terrore sui treni” un vero e proprio “impistaggio”. Infatti i biglietti aerei fatti ritrovare nella valigia risultavano acquistati da Giorgio Vale (esponente di Terza posizione, amico fraterno di Mambro e Fioravanti) e tra i passeggeri dei voli a cui facevano riferimento i biglietti aerei fatti ritrovare vi era un certo “Bottacin” [falsa identità utilizzata in più occasioni da Gilberto Cavallini] e un certo “Fiorvanti”. Più chiari di così…

Ma prima ancora, proprio nell’ottica di indirizzare le indagini verso la destra internazionale e nostrana, ci pensò, guarda caso, in totale sintonia coi nostri servizi, Salah Khalaf, alias Abu Ayad, numero due dell’olp che sul “Corriere del Ticino” in un’intervista di Rita Porena il 19 settembre 1980, lanciò quella che gli stessi magistrati hanno chiamato “pista libanese”, additando come responsabili neofascisti tedeschi, francesi e italiani, addestrati nei campi falangisti in Libano. Abu Ayad sostenne che era venuto a conoscenza dei progetti di attentato a Bologna dai neofascisti italiani. La “strage fascista” non era in discussione già dall’inizio. Si procedette quindi a tappe forzate sino alle condanne definitive del 1995 per Fioravanti e Mambro».

Fioravanti e Mambro giudicati colpevoli e condannati a diversi ergastoli nel 1995 per strage, Ciavardini, minorenne nel 1980, verrà condannato nel 2007 a 30 anni come esecutore materiale su accusa di Angelo Izzo. Ma nel 2005 accade qualcosa.

«Esatto. Gian Paolo Pelizzaro e Lorenzo Matassa consulenti della Commissione Mitrokhin mentre stavano lavorando alla stesura della già citata “Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980”, scoprono, come abbiamo già detto, la presenza di Kram a Bologna. La relazione su Separat apre uno squarcio clamoroso in un clima che sino a quel momento aveva una sola verità, quella della strage fascista. Si apre la cosiddetta “pista palestinese”, in cui si ipotizza che l’esplosivo sia stato collocato da uomini di Carlos, su commissione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina [Fplp]. Atto di ritorsione dopo il sequestro a Ortona nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979 di due missili terra aria Sam 7 Strela, di fabbricazione sovietica, trasportati da tre autonomi romani, e il conseguente arresto del plenipotenziario in Italia dell’Fplp, Abu Anzeh Saleh. Tutto ciò come “sanzione” per l’infrazione del cosiddetto Lodo Moro, quell’accordo fra governo italiano e palestinesi che permetteva il libero transito di armi palestinesi sul suolo italiano in cambio dell’assenza di attentati, oltre a clausole di tipo economico che facilitavano le forniture di petrolio all’Italia dai paesi arabi e le forniture di armi dall’Italia anche a paesi sotto embargo. Un accordo probabilmente “stipulato” tra la fine del 1972 e il 1973 dopo un anno e mezzo di azioni terroristiche palestinesi in mezza Europa e che interessarono anche il suolo italiano come ad esempio nell’agosto 1972 con l’attentato al deposito Siot di Trieste o sempre nell’agosto di quell’anno con l’attentato scampato per pura fortuna ad un aereo della El Al partito da Fiumicino e su cui era stato imbarcato da due giovani e ignare turiste inglesi un mangianastri esplosivo regalato loro da due arabi. Nella “Relazione” su Separat venne rivelato, tramite documenti inconfutabili, che Thomas Kram il 2 agosto 1980 era a Bologna. Come detto sopra, Kram era un esperto di esplosivi delle Cellule rivoluzionarie tedesche, gruppo di estrema sinistra dedito alla guerriglia e al sabotaggio, ma anche principale serbatoio da cui Carlos attingeva per i quadri dirigenti della sua organizzazione. La pista palestinese spiega il movente [il sequestro dei missili, l’arresto del responsabile per l’Italia, quindi la rottura del lodo], i mandanti [l’Fplp di George Habbash], gli esecutori [membri del gruppo Carlos], i depistaggi [organizzati e pianificati in stretta sintonia dai palestinesi e dal Sismi]. Il 28 luglio 2005 l’onorevole Vincenzo Fragalà presenta una interpellanza urgente, la n. 2-01636, che porta la Procura di Bologna ad aprire un nuovo filone d’inchiesta sull’attentato del 2 agosto 1980, come sopra ricordato».

Dunque le risultanze della Commissione Mitrokhin provocarono grandi e prevedibili sconquassi, e costrinsero i giudici a riaprire un’altra indagine, stavolta sulla pista palestinese. Di cui nel 2014 venne chiesta l’archiviazione. Con due motivazioni che ti chiedo di illustrare. Il procuratore Roberto Alfonso e il Sostituto Enrico Cieri hanno affermato infatti che, dopo aver analizzato documenti frutto di rogatorie in Germania non c’era evidenza che Kram appartenesse al gruppo Carlos (in realtà era il numero 7 nell’organigramma dell’organizzazione), e che non c’erano prove inequivocabili dell’esistenza del Lodo Moro.

«Sarebbe bastato aspettare un anno, il 2015, quando venne reso pubblico un messaggio di Stefano Giovannone da Beirut a Forte Braschi. È il 17 febbraio 1978 quando il colonnello Giovannone informa il Sismi su un possibile futuro attentato. Poi però dice, come rassicurazione: “A mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, interlocutore habet assicuratomi che «Fplp» opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristici”. «In realtà sul Lodo Moro si sapeva tanto già da prima. La verità è che un ribaltamento di prospettiva così radicale non poteva venire ammesso da chi sulla “strage fascista” ha costruito negli anni consenso e carriere politiche. Le tentarono tutte. Il diessino Valter Bielli, all’epoca capogruppo dei Ds in Commissione Mitrokhin, diede un’intervista sull’“Espresso” (datata 1º dicembre 2005) affermando che il fatto che Kram avesse esibito i suoi veri documenti dimostrava la sua buona fede, tirando fuori inoltre come ennesimo “alibi” per il tedesco il telex che, come trascritto nella Relazione di minoranza (di centrosinistra del 23 marzo 2006) della Commissione Mitrokhin, dimostrerebbe che la perquisizione subita a Chiasso obbligò Kram a un ritardo ferroviario che lo costrinse a fermarsi a Bologna. Peccato che la trascrizione di quel telex fosse stata pesantemente manipolata. Il ritardo fu minimo, Kram partì da Chiasso alle 12.08 e avrebbe potuto tranquillamente raggiungere in serata Firenze in treno, sua meta dichiarata. Infatti nel 2013, in una memoria depositata alla Procura di Bologna, Kram ha ammesso candidamente di essere giunto a Bologna nel “corso del pomeriggio” del 1° agosto. C’è poi il fatto che Kram dichiarò di aver raggiunto Firenze in corriera il 2 agosto e di esservi rimasto “quattro, cinque giorni”, mentre la sera del 5 agosto lo ritroviamo a Berlino Est, raggiunto poche ore dopo da Johannes Weinrich, numero due del gruppo Carlos. Entrambi lasceranno la Ddr la mattina del 10 agosto. Insomma, ce ne sono molte di incongruenze sulle quali, a mio avviso, la magistratura ha deciso di non indagare e approfondire adeguatamente».

Thomas Kram

Kram avrebbe potuto spiegare ai giudici, quando nel luglio 2013 si è presentato spontaneamente a Bologna, il perché di quel viaggio.

«Kram si è avvalso della facoltà di non rispondere, portando una memoria scritta. I giudici alla fine archiviarono affermando però che la presenza di Kram a Bologna alimentava “un grumo residuo di sospetto”. Grumi di sospetto ben minuscoli per qualcuno, se quando nel 2001 il capo della Polizia De Gennaro ricevette dalla Germania una richiesta di informazioni su una latitante della Cellule rivoluzionarie che poteva trovarsi nel nostro Paese e accompagnarsi a Thomas Kram. De Gennaro, scoperto che Kram era a Bologna il giorno della strage, inoltrò una richiesta di indagini alla Questura di Bologna che interessò la Procura. Il sostituto procuratore Paolo Giovagnoli chiese al procuratore capo Luigi Persico di rubricare il fascicolo modello 45 (“atti non costituenti notizia di reato”). L’inchiesta fu archiviata nel giro di una settimana e così il nome di Kram restò sepolto per altri 4 anni».

La storia della pista palestinese non finisce però con l’archiviazione del 2015. Arriva un libro. E un’altra indagine.

«Il libro è “I segreti di Bologna”, di Valerio Cutonilli, avvocato romano, e Rosario Priore, il magistrato che indagò su Ustica, sull’attentato al Papa, sul caso Moro nei primi tre processi. Con Priore ho scritto anch’io un libro sulla prima strage di Fiumicino, quella del 17 dicembre 1973. E torna, come un nero fantasma, la tristissima storia di Maria Fresu. Maria, ventitreenne toscana di origine sarda, è una delle vittime della strage. Stava andando in vacanza assieme a due amiche, di cui una è sopravvissuta, e questo non è un particolare da poco. A Bologna è morta anche la figlioletta di tre anni. Di Maria si sono ufficialmente trovati solamente alcuni resti: un cosiddetto lembo facciale, una sorta di scalpo con un foro oculare, il naso, parte della guancia, le labbra, la fronte e un ciuffo di capelli; una lugubre maschera prodotta dalla fortissima compressione che esplosione ha prodotto. L’aria, entrata ad altissima velocità dai fori delle orecchie e del naso, ha letteralmente strappato la faccia dal teschio».

E gli altri resti della donna?

Appunto. Di Maria, ufficialmente, e ripeto ufficialmente, non si è trovato null’altro. Le sono stati attribuiti il lembo facciale e i resti di una piccola mano. Altra questione importantissima: per subire una compressione del genere, la donna avrebbe dovuto essere a non più di mezzo metro molto vicina al punto dello scoppio. Una fattispecie di decesso diversa da quella della maggior parte delle vittime, travolte dal crollo dei muri della sala di attesa di seconda classe. Silvana Ancillotti, l’amica della Fresu sopravvissuta, ricorda ancora oggi lucidamente che Maria al momento dello scoppio era vicina a lei a una distanza superiore ai 5-7 metri. Quando Silvana si risvegliò fra le macerie, di Maria non c’era traccia».

Dove era finita? Oltre a Cutonilli e Priore se lo sono chiesto anche i magistrati del processo a Gilberto Cavallini. Mentre per qualcun altro sono iniziati i mal di pancia.

«Come a Riccardo Lenzi, presidente dell’associazione “Piantiamo la memoria”. Nel 2016, all’uscita del libro di Cutonilli e Priore, Lenzi disse che la sanzione minima per quelli come Priore – che, fra parentesi, aveva avuto un lontano familiare fra le vittime – era di non venir più accolti a Bologna e invitava a non comprare il libro. Questo il clima».

In ogni caso del lembo facciale si è parlato nel processo di primo grado contro Gilberto Cavallini per concorso in strage, iniziato nel 2017 e terminato nel gennaio 2020 con la condanna all’ergastolo dell’ex Nar.

«In realtà se ne è parlato ben prima. Già nel 1980 l’anatomopatologo Giuseppe Pappalardo fece la prima perizia sui resti attribuiti a Maria Fresu attraverso l’esame del sangue. E ne uscì che il profilo immuno ematologico della “maschera facciale” apparteneva al gruppo A, mentre quello della Fresu e di tutti i suoi familiari, madre, padre, un fratello e sei sorelle, era del gruppo 0».

Se non era la Fresu, già allora era da mettere in conto una ottantaseiesima vittima.

«In teoria quei resti avrebbero potuto essere di un’altra vittima, e Pappalardo si pose il problema e indagò anche in questo senso. Fra le restanti quaranta vittime della strage di sesso femminile, solo due avevano il “volto sfacelato” in condizioni compatibili con il lembo facciale. La perizia sui loro resti disse che Vincenzina Sala, 50 anni, aveva gruppo sanguigno 0, Errica Frigerio, 57 anni, era di gruppo B. Il lembo facciale, che era appartenuto ad una giovane donna, non poteva quindi essere neppure di queste due povere vittime».

A maggior ragione quindi una ottantaseiesima vittima.

«Altroché. Pappalardo lo ammise in una nota della sua perizia, ma poiché vi era la certezza che la Fresu si trovava nella sala d’aspetto al momento dell’esplosione e di lei non restava nulla se non quel reperto non attribuibile a nessun’altra vittima di sesso femminile, per far tornare i conti, Pappalardo ipotizzò la teoria della “secrezione paradossa”. Si tratta di una vecchia teoria degli anni ’50 che ammetteva la possibilità di discrepanze nella determinazione del gruppo sanguigno se effettuata su secreti e sangue disseccato. Una teoria, è stato dimostrato da anni, assolutamente inconsistente dal punto di vista scientifico».

Strage Bologna1

Però allora, a quanto capisco, i giudici l’avevano accolta.

«Certo. Era l’unica spiegazione ammissibile per tenere in piedi la “verità” politicamente corretta. Il dossier Maria Fresu venne messo in un cassetto, il lembo facciale venne attribuito alla povera giovane mamma toscana attraverso la teoria della “secrezione paradossa”, e venne tumulato nella tomba di famiglia a Montespertoli e il numero delle vittime, 85, divenne quello ufficiale».

Ma il dossier è tornato poi alla ribalta al processo Cavallini.

«Una mano e una maschera facciale. Sempre quelle. Nel marzo 2019 nel cimitero di Montespertoli, la tomba dove si presumeva riposassero i resti della Fresu è stata aperta, e il lembo facciale, trovato spezzato in due parti e “fortemente ammalorato”, assieme ai resti della piccola mano di donna, è stato riesumato. Messa in cantina la teoria della “secrezione paradossa”, una nuova perizia, questa volta non solo sul gruppo sanguigno ma sul Dna, affidata alla biologa genetico-forense dei Ris di Roma Elena Pilli, ha escluso l’appartenenza del reperto alla Fresu. I resti della mano, ma soprattutto il lembo di volto non appartengono alla giovane donna toscana… Torna quindi prepotentemente in essere, ma soprattutto scientificamente, un dato di fatto: la certezza dell’esistenza di una 86ª vittima, ignota e mai reclamata. Nella prima perizia esplosivistica eseguita dal professor Danilo Coppe e dal colonnello dei carabinieri Adolfo Gregori, depositata il 27 giugno 2019, è stato affermato che nella sala d’aspetto della stazione di Bologna un corpo “NON” poteva smaterializzarsi. Nel successivo addendum, depositato il 21 ottobre 2019, di fronte al dato inconfutabile che quello scalpo non era della Fresu, Coppe e Gregori hanno ipotizzato che il corpo della Fresu si sia “depezzato” e i resti siano stati distribuiti in altre bare. Per quanto riguarda il lembo di volto, Coppe ha avanzato l’ipotesi che esso potrebbe teoricamente appartenere a una tra altre sette vittime di sesso femminile con traumi gravi al capo. Abbiamo visto che già Pappalardo aveva fatto un’indagine comparativa limitando tale possibilità a due vittime, ma escludendole per età e gruppo sanguigno. Gli avvocati della difesa di Cavallini hanno quindi depositato i referti tanatologici del 1980 di queste sette donne in cui si può già documentalmente evidenziare l’incompatibilità con lo scalpo. Il presidente della Corte di Assise Michele Leoni ha però chiuso la questione negando l’esame del Dna sui familiari delle sette vittime indicate da Coppe. Esame che avrebbe potuto indicare scientificamente e in maniera inconfutabile se quel volto apparteneva o no ad una vittima identificata».

Ora, dopo questo lungo excursus su una vicenda così complessa, di cui ti ringrazio e che spero sia risultata interessante ai lettori, ti chiedo un’analisi più personale, da ricercatore che ha studiato forse con più continuità le carte processuali e non solo della questione Bologna.

«Il clima a Bologna è tale che ipotesi alternative sulla strage del 2 agosto non sono “culturalmente” accettate. E questa è la questione principale. Prima di arrivare al nocciolo, lasciami aggiungere qualcosa. Durante il processo Cavallini i due avvocati difensori Alessandro Pellegrini e Gabriele Bordoni chiesero di poter esaminare le carte e i telex del colonnello Giovannone, nel 1980 capocentro del Sismi a Beirut e interfaccia dei nostri servizi con la galassia arabo-palestinese. Su questi documenti è scaduto il segreto di Stato nel 2014, ma sono stati subito blindati con le consuete classifiche riservato(R)-riservatissimo(RR)-segreto(S)-segretissimo(SS). A febbraio 2019 la richiesta di acquisizione è stata rigettata dal presidente della Corte d’Assise. In maggio è giunto il rifiuto anche da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri. La domanda è quindi sempre la stessa: cosa c’è in quelle carte? Niente? E se non c’è niente perché dopo 40 anni storici e ricercatori non li possono ancora visionare?».

Sempre le carte di Giovannone. Sempre invisibili, come nel caso Toni-De Palo.

«Sì però almeno in quel caso la parziale verità, sia giudiziaria che storica, conferma il depistaggio dei Servizi, o almeno di parte di essi. Su Bologna la questione della ottantaseiesima vittima è esiziale, e va a sommarsi al convincente quadro disegnato nella Commissione Mitrokhin da Pelizzaro e Matassa, e poi nel libro “Dossier Strage di Bologna. La pista segreta”, firmato oltre che da me, da Gian Paolo e da François de Quengo de Tonquédec. Le minaccie esplicite di ritorsione dell’Fplp ci sono, c’è una bomba che, nonostante la tanta disinformazione, non era ad alto potenziale, ma ha causato tante vittime per il crollo dell’edificio della sala d’aspetto di seconda classe e per una serie di concause singolari, ad esempio la presenza di un treno sul primo binario che ha amplificato l’effetto riflettendo l’onda d’urto. Altrimenti avrebbe fatto non più di dieci vittime, tutte le persone che disgraziatamente si trovavano nel raggio di 5-7 metri dal punto dell’esplosione. Non so a cosa servisse la bomba, se a un attentato a Bologna, o se era solo in transito verso un altro obiettivo, come disse Cossiga, magari verso Trani ove era incarcerato Abu Anzeh Saleh. Certamente l’ipotesi di un’esplosione accidentale ha i suoi perché. Ma possiamo fare solo ipotesi.